Gabbie animali e umane

Con questo terzo articolo prosegue l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli animali da reddito e non e le regole a cui siamo soggetti.

Quando si parla di animali in gabbia si pensa immediatamente agli animali rinchiusi negli zoo o nei circhi, a quelli più o meno feroci catturati ed esposti al pubblico o a quelli stipati negli allevamenti intensivi; sono comunque tutti accomunati da una vita condotta all’interno di un sistema di costrizione fisica, di contenimento e immediato è il parallelo con l’analogo sistema umano, dove si vuole amministrata la giustizia per ordine dell’autorità competente, il carcere.

Lo scorso marzo, nelle prime fasi di questa pandemia, in numerose carceri sparse per tutto lo stivale, ci sono state delle rivolte spontanee causate dal panico da diffusione incontrollata e incontrollabile del virus. A Modena cinque reclusi sono morti durante la sommossa, quattro durante il trasferimento in altre carceri come Bologna e Terni e almeno altri quattro nelle settimane successive. Morti le cui cause non sono ancora certe, una strage di stato di proporzioni incredibili senza precedenti dal dopoguerra ad oggi.

Le rivolte sono immediatamente state indicate come etero dirette dalla mafia, da sovversivi o da fantomatiche forze occulte che tramano nell’ombra, chiaramente per gettare discredito sulle reali motivazioni del disagio che ha causato quel dissenso. La verità è che la gestione dell’emergenza se fuori è stata gestita col bastone della repressione, in carcere non è certo stata usata la carota, ma un bastone con ancora più nervo. Le condizione di sovraffollamento delle carceri italiane sono note da decenni e il timore riguardante la diffusione del covid in questi ambienti così precari è stata la scintilla che ha incendiato una polveriera colma, giunta all’esasperazione con la soppressione dei colloqui con i famigliari, uno dei pochi momenti di contatto con l’esterno e di socialità non controllata dei detenuti.

E se alle immagini delle rivolte sui giornali e tv è stato dato molto risalto, per questa strage solo in pochi ambienti se n’è sentito parlare, anzi solo in questi giorni a mesi di distanza, è stato depositato un esposto per far luce sui pestaggi e le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in quei giorni di marzo.

Parallelamente, lo scorso ottobre in trentino abbiamo assistito al corteo di protesta contro la detenzione, all’interno dell’area faunistica del Casteller nei pressi di Trento, degli orsi considerati troppo pericolosi per l’uomo e del danneggiamento fatto ad una delle recinzioni perimetrali. A questo analogo caso di costrizione forzata, che fortunatamente non ha causato vittime, è stato dato molto risalto.

E facendo un parallelo ci troviamo di fronte al paradosso che la cattura di un’orsa ha visto un corteo in trentino e un sabotaggio, azione ribadiamo assolutamente condivisibile, e la strage di Modena non ha visto una mobilitazione così per certi versi incisiva.

Sia ben chiaro, l’intento di questo confronto non vuole in alcun modo togliere supporto e sostegno alla lotta, azione e mobilitazione del Casteller, ma porre un interrogativo riguardo al rischio di avere sensibilità diverse di fronte ad un analogo sistema costrittivo.

Perché se da un lato nel precedente articolo abbiamo visto come gli animali siano assolutamente spendibili (nel loro caso sopprimibili) in nome del rischio sanitario, con questo silenzio o peggio disinteresse non vorremmo che anche quegli uomini lo siano, essendo già privati, oltre che della libertà del diritto alla salute e alla vita e sia ben chiaro non vissuta dietro le sbarre o comunque lo siano come esperimento di un sistema da allargare poi a tutta la popolazione in qualche modo non produttiva.

E se, secondo le autorità, l’istinto animale non si può modificare e quindi il contenimento diviene indispensabile, sarebbe forse meglio non utilizzare per scopi economici o turistici la natura ma questo è un altro discorso, dall’altro il falso mito della riabilitazione, rende la detenzione in carcere il fine unico. Carcerazione fatta in condizioni di disagio e di distacco dagli affetti e precaria da molti punti di vista, non ultimo quello sanitario.

E questa umanità e questi animali sono legati da un triste destino, definito da Mario Trudu, ergastolano scrittore che di fronte alla certezza di concludere i suoi giorni in gabbia chiese di essere giustiziato giudicando questa fine più degna e ottenendo una risposta negativa, pena di morte in vita. Lucida analisi che ben caratterizza l’atteggiamento spietato, sadico e cinico di chi pensa, pianifica e realizza questi sistemi costrittivi.

Sistemi che occorre distruggere con la massima urgenza, qualsiasi essi siano, virus o non virus.

Pernice Nera

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