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Una morte annunciata

venerdì, Aprile 14th, 2023

Ha avuto grande risalto la notizia della morte di Andrea Papi ventiseienne di Caldes in val di Sole che, uscito di casa lo scorso 5 aprile per una corsa in montagna, è stato trovato privo di vita con evidenti segni di aggressione e che poi l’autopsia ha confermato essere provocate da un orso.

Un dibattito serrato si è scatenato e tanti sono stati i pensieri e i commenti che ho potuto leggere in questi giorni e con questo scritto ho deciso di mettere nero su bianco, alcuni pensieri che già qualche anno fa avevo scritto ma che purtroppo non avevo reso pubblici.

Facendo un passo indietro l’orso e i grandi carnivori in generale sono stati da sempre un pericolo per le fragili comunità alpine che appena hanno avuto la possibilità, ad esempio con la diffusione delle armi da fuoco, hanno provveduto a mettersi al riparo dalla natura di questi carnivori.

Si stima che nell’intero arco alpino negli anni 60 del ‘900 ci fossero una quindicina di esemplari scesi poi a tre-quattro concentrati nell’area occidentale del trentino ad inizio degli anni 90.

La reintroduzione del più grande plantigrado europeo s’è concretizzata col progetto Life Ursus che tra il 1999-2002 ha permesso il rilascio di una decina di esemplari provenienti dalla Slovenia, sette femmine e tre maschi, con la pretesa di poterli gestire attraverso radio collari, anche negli anni, attestando poi la popolazione vitale tra i 40 e i 60 esemplari.

Esistono delle differenze tra l’orso sloveno e quello “storico” italico sia dal punto di vista fisiologico, il primo presenta dei letarghi più brevi e un tasso di riproduzione leggermente maggiore, che biologico probabilmente spazi maggiori e meno disturbo antropico, anche venatorio, hanno reso l’orso sloveno meno diffidente e più avvezzo al contatto con l’uomo di quello autoctono abituato all’avversione dei montanari.

Oggi l’orso è presente in molte valli della provincia di Trento e in altre delle province confinanti, ufficialmente censito intorno ai cento esemplari, solo qualche decina radiocollarati, ma più verosimilmente vicino ai 150 esemplari; un numero destinato a salire con i piccoli partoriti ad inizio anno e non ancora censiti. Numeri ben diversi da quelli inizialmente auspicati nel progetto.

La reintroduzione dell’orso è stata fin dal primo momento ammantata da una propaganda martellante con al centro le tematiche relative al ripristino di condizioni di naturalità e biodiversità dell’ecosistema montano trentino ma che mai sono riuscite a nascondere le reali intenzioni di sfruttare il volano di questo progetto a livello pubblicitario, turistico e commerciale; molti sono i loghi e i nomi di attività pubbliche e commerciali che si richiamano al progetto.

L’accettazione acritica e passiva del progetto life Ursus ha portato con sé l’esplicita accettazione della trasformazione della montagna in un parco giochi non urbano e l’accettazione che questa e i suoi abitanti siano destinati ad essere spettatori di questo scempio a favore di un turismo colonizzatore, mondano e giornaliero.

In una parola insostenibile, da tutti i punti di vista.

Negli anni purtroppo poche sono state le voci dissenzienti e fa riflettere come esista una spaccatura tra chi la montagna la vive nella quotidianità, per esigenze economiche o di vita e chi la vive nei fine settimana o nelle settimane bianche e nelle escursioni-selfie.

Fa riflettere come contro chi si è permesso di porre solo delle domande, o dei dubbi sul progetto si sia creato negli anni un asse tra la galassia ambientalista (termine a mio avviso vuoto di significato, tra l’altro vorrei vedere chi non si dichiara così) e anticaccia, ovviamente anti-specisti, e la provincia di Trento e gli enti pubblici collegati che nella sua scelta ha mostrato come l’apoteosi specista, con le sue pretese di ripristino di una naturalità artificiale, ha prodotto questo disastro.

L’eterogeneità dei fini si potrebbe dire, ma pure nei mezzi, ossia nell’assoluta e colposa inerzia e immobilità di fronte agli squilibri creati che hanno portato, de facto, alla perdita di controllo sul progetto e sugli animali.

La scelta specista di considerare degli animali selvatici animali da cortile, gestibili e direzionabili, che ha come prezioso alleato l’anti-specismo di pancia, ignorante, nel senso etimologico, dei meccanismi biologici che regolano un ecosistema in buona parte snaturato dall’intervento antropico che ha come unica soluzione, forse un po’ nichilista, il non fare nulla perché la natura si autoregola. Chiaramente anche dopo una tragica fatalità.

Il colpevole della morte di Andrea Papi non è certo l’orso, colpevole solo di essere un orso con la sua natura e i suoi istinti, ma come per tutte le degenerazioni ambientali il colpevole è l’uomo.

Per la verità le responsabilità della morte di Andrea Papi, come di tutti i danni e i ferimenti che hanno sconvolto la vita di numerose persone, sono chiare e sono da ricercare all’interno di quella cerchia politica che ha voluto, sostenuto, attuato e tutt’ora implementato quei folli progetti chiamati life ursus o wolfalps.

Mandanti morali si potrebbe dire, o responsabili come avrebbero detto quando la differenza tra vittime e colpevoli era molto più netta, e quando il concetto di violenza, di vita e di morte nella civiltà contadina che ci ha preceduto era molto più chiaro.

Oggi la violenza quando non diretta e manifesta attraverso delle aggressioni è evidente a scapito degli allevatori spaventati e dagli armenti, sbranati dai grandi carnivori, che stanno irrimediabilmente abbandonando i pascoli alpini, e senza il pascolo scompaiono le condizioni per la nidificazione di alcune specie autoctone come, ad esempio, la coturnice delle alpi, degli apicoltori che per preservare i propri alveari già fiaccati dalle malattie e dalla chimica devono creare dei fortini elettrificati, della fauna ittica distrutta dalla costruzione di laghi artificiali per le neve artificiale, e di tutte quelle specie animali e vegetali che non potendo essere impiegate come volano mediatico e pubblicitario sono sacrificabili e destinate ad una lenta morte.

Sto pensando anche ad una specie alloctona come il muflone, bestia sacrificabile per l’alimentazione dei carnivori immessi, che introdotta con piani provinciali, nel quadriennio 2018-2022 in Trentino ha visto la propria popolazione censita scesa da 720 a 161 esemplari a fronte di un aumento esponenziale dei lupi; lupi che nei vicini appennini, finiti gli animali selvatici, si sono avvicinati ai centri abitati predando senza remore qualsiasi animale domestico, cani in testa.

Se umanamente posso essere dispiaciuto per gli orsi e i lupi, che a mio avviso devono essere comunque eradicati, dall’altra so bene che questa scelta è oggi ancor più necessaria per la folle idea della montagna cartolina, della natura fatta di panorami, di rifugi sempre più resort di lusso, delle foto di lupi ululanti al chiaro di luna sull’Instagram e degli orsi Yoghi e Bubu birbanti rovistatori tra i cestini dei turisti in campeggio.

È una questione di autodifesa.

La natura e la montagna per come le conosco sono ben altro, sono tanto generose quanto spietate e lo sono già abbastanza senza che vengano introdotti elementi come l’orso o il lupo.

La soluzione ad oggi prospettata per dare una risposta alla morte di Andrea è la stessa impiegata per gestire qualsiasi problema, renderla emergenza che giustifica i peggiori divieti e le peggiori scelte.

Da un lato si stanno pensando a delle restrizioni e dei divieti di accesso alle aree di presenza dell’orso, quindi, in sintesi di rinunciare a vivere la montagna nella sua totalità, come già avviene in certe zone dell’Abruzzo che però ha una densità antropica decisamente diversa al trentino (o magari lo si potrà fare attraverso un green pass?), dall’altra giustificando la soppressione di prima 4, poi 3, poi 50 orsi per la loro pericolosità sociale che dal 5 aprile questi hanno acquisito.

Scelte che scatenano così una risposta di pancia da parte di chi non ha ancora compreso dove davvero stia la violenza e che rendono bene l’idea di quanto questi dilettanti allo sbaraglio non vogliano in alcun modo risolvere il problema e di come la loro violenta non violenza, del loro immobilismo, sia più pericolosa del ripristino di quelle condizioni che hanno garantito più serenità a chi di montagna e anche delle sue asperità vive.

In questo nulla resta il dramma di una famiglia, di una madre che in una lettera lucida e toccante, ha definito la morte di suo figlio “una morte annunciata”, una lettera che mi ha colpito e mi ha spinto a scrivere queste righe.

Per Andrea.

Foto: Willy Verginer – Sculture silenziose