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Si può mettere la natura in lockdown?

giovedì, Febbraio 10th, 2022

Ha creato grande allarme il ritrovamento lo scorso 7 gennaio 2022 delle prime carcasse di cinghiali morti per la famigerata peste suina africana, malattia virale che colpisce cinghiali e suini. I primi capi trovati nel Comune di Ovada, in provincia di Alessandria, hanno destato estrema preoccupazione per la contagiosità della malattia, che però non è trasmissibile all’uomo, e hanno fatto immediatamente attivare gli enti preposti alla vigilanza.

Già dopo pochi giorni il mistero della salute ha rilasciato due circolari contenenti specifiche misure di emergenza, a distanza di pochi giorni il 13 e 18 gennaio, queste circolari hanno istituito una zona infetta, che oggi comprende 78 comuni del basso Piemonte, tutti in provincia di Alessandria, e 36 in Liguria (Genova e Savona) entro cui vengono prescritti dei divieti per impedire una lunga serie di attività all’aria aperta, quali esercizio venatorio, raccolta funghi, trekking e che in sintesi introducono un lockdown (l’ennesimo inglesismo pensato per rendere più dolci le restrizioni  confinamenti) finalizzato al contenimento entro quei luoghi della peste suina africana riscontrata nei capi di cinghiali ritrovati morti.

Divieti e repressione dello stato centrale e delle sue ramificazioni che non si limitano a creare aree interdette, novelle “servitù sanitarie”, ma che vanno come sempre a colpire la microeconomia imponendo tra l’altro la macellazione immediata dei suini degli allevamenti famigliari.

Il cinghiale praticamente assente nell’arco alpino e presente in piccoli gruppi negli Appennini, sopravvissuto oggi nella specie autoctona solo in Sardegna, è stato dal primo dopoguerra oggetto di incroci con razze provenienti dall’est Europa o di ibridazione con maiali allevati allo stato brado.

Questi ibridi, grossi fino al doppio della specie autoctona maremmana, più voraci essendo meno selettivi e decisamente più prolifici, una scrofa può arrivare a partorire 2 volte l’anno fino a 12 piccoli a volta, hanno rappresentato inizialmente una fonte di sostentamento alimentare e col passare degli anni, in assenza di un adeguato contenimento, di predatori in grado di limitarne la crescita (i lupi nostrani faticano a competere con questi animali di grossa taglia) e del graduale abbandono dell’uomo dei boschi stanno diventando una vera piaga per chi vive le zone collinare e montane, distruggendo in modo sistematico coltivazioni, prati e pascoli.

Ma non solo perché da Genova a Roma sono oramai quotidiane le scorribande di questi capi filmati a rovistare tra i cumuli di immondizia nelle periferie cittadine.

L’urgenza di contenere la diffusione di questa malattia non è dettata da uno spirito ambientalista o di tutela della salute della fauna selvatica, ma dalla necessità di impedire che questa raggiunga gli allevamenti intensivi della pianura padana.

Immediata e come spesso capita fuori luogo è stata la presa di posizione di molte associazioni pseudo ambientaliste che anziché vedere la luna (la criticità intrinseca degli allevamenti intensivi) guardano il dito attaccando la caccia; Legambiente nazionale, ha lanciato un appello al ministro della Salute Roberto Speranza per l’emanazione di «un’ordinanza che vieti per i prossimi 36 mesi la caccia nelle forme collettive al cinghiale (braccata, battuta e girata) senza rendersi conto che l’assenza di un contenimento del cinghiale può causare solo criticità.

Problemi dati dall’assenza di predatori e dalla prolificità di quegli animali che già nel brevissimo termine può portare a condizioni di sovrappopolamento che possono essere causa di malattie e dello spostamento degli animali.

L’area dove sono stati riscontrati i primi casi di influenza suina africana è strategica perché è quella che mette in collegamento le Alpi con gli Appennini e quindi, potenzialmente, i grossi allevamenti suinicoli della pianura che va da Parma al Friuli, ma anche gli allevamenti della bassa pianura bresciana, cremonese e mantovana. Un corridoio ecologico che negli anni è stato utilizzato da molti altri animali, lupi e sciacallo dorato per citarne due, per allargare il loro habitat.

Pensare che queste misure possano limitare la diffusione della malattia è pura fantasia, ben altre sono forse le intenzioni dietro queste leggi emergenziali.

Se da un lato malattie infettive e allevamenti intensivi sono collegati, l’abbiamo visto con il Covid19 anche se difficilmente sapremo se davvero è davvero di origine animale, dall’altro sappiamo quanto negli ultimi decenni la continua sottrazione di habitat ai selvatici a favore degli allevamenti intensivi, inquietanti sono immagini delle porcilaie in Cina alte 13 piani costruite in mezzo ai boschi, sia possibile causa di trasmissione di malattie col famigerato spillover o salto di specie.

Inoltre, non ci si può esimere dal fare un parallelo tra l’esperimento sociale che vuole sempre più ambiti della vita umana interdetti per la questione sanitaria.

L’esperimento che vuole collegato in una morsa letale la libertà alla salute l’abbiamo visto applicato scientificamente negli ultimi due anni ed ora col pretesto della peste suina africana lo vediamo esteso ad ambiti prima esclusi.

Questa accelerazione, questo passo successivo rispetto al Covid19, non riguarda la salute umana o animale ma quella di un sistema produttivo, quello degli allevamenti intensivi che per loro stessa esistenza sono insalubri. Sistemi insostenibili sia per gli animali costretti a vite artificiali e innaturali, in spazi confinati dove il malessere animale è pianificato e regolamentato da leggi europee e sia per l’ambiente soffocato dalla meccanizzazione, dalla perdita di biodiversità, dalla chimica e delle deiezioni derivanti da questi incubatoi di patologie.

Non è un caso che nelle stalle, in particolar modo di avicoli e suini, le terapie antibiotiche siano prassi e routine pianificate a seconda dell’età degli animali e non estrema ratio in caso di infezioni.

La salute di questo sistema produttivo deve essere garantita e protetta per tutelare il comparto e sua economica e sull’altare di quei profitti viene sacrificata la nostra libertà di movimento, azione e sostentamento. Oggi i comuni interdetti sono nelle regioni ad ovest ma presto, molto presto, potrebbero estendere questa idea di zona infetta in altre regioni, da noi.

Accettare il lockdown anche per la natura può essere il passo definitivo per la normalizzazione del confinamento che dopo socialità, cultura e lavoro toglierebbe definitivamente l’ultimo spazio di libertà che abbiamo goduto nel periodo di confinamento e che nei secoli ha rappresentato rifugio e alcova delle più belle idee di vita, rivolta e libertà.

Contro queste follie per la nostra libertà.

Pernice Nera