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A tre anni di distanza

lunedì, Febbraio 27th, 2023

A tre anni di distanza dalla comparsa nelle nostre vite della malattia che è passata alla storia come Covid-19 e in proseguimento del lavoro collettivo che ha prodotto la raccolta di scritti dal titolo “Fine emergenza mai” che fin dai primi giorni di marzo 2020 ha raccontato l’affermazione della narrazione pandemica e delle norme repressive e liberticide connesse, con questo scritto inauguriamo una serie di articoli che hanno la pretesa fare un punto della situazione oggi.

Oggi che per certi versi l’effetto lungo della stretta sanitaria pare avere perso il suo volano mediatico, ma non per gli effetti avversi ormai, normalizzati nella neolingua anglicizzata del long Covid, molti sono gli aspetti che ancora ci preoccupano e ci fanno riflettere.

Non certo da un punto di vista sanitario, gli effetti collaterali paiono non colpire chi non si è allineato al motto vaccino e moschetto democratico perfetto, ma in parte per lo stigma sociale che ancora in molti luoghi proprio quelle persone sentono addosso e in parte per la deriva autoritaria che questo regime ha preso.

La realtà dei fatti ha visto e vede pian piano sgretolarsi il muro di menzogne che lo stato ha costruito per mascherare la più grande operazione di maquillage sanitario di questo secolo.

La falsità dolosa del non ti vaccini, ti ammali, muori e fai morire pronunciata a reti unificate dal precedente presidente del consiglio Draghi dovrebbe fare esplodere di rabbia pure quelle persone che in questi anni hanno perso i loro cari; una menzogna accertata oggi da numerosi studi scientifici e supportata dai dati, pure da quelli pubblici.

Pure per la gestione dolosa delle cure, a cui si danno gli ovvi benefici del primo periodo, ma che non può farci dimenticare il mantra della tachipirina e vigile attesa, formula criminogena che è perdurata per oltre due anni e che ha de-facto posto nella scomoda posizione tutte le altre terapie fuori da quel coro. Che poi la tachipirina e l’attesa non sono certo una terapia ma come si è dimostrato anticamera dell’aggravarsi della patologia.

E quando non c’è stata la menzogna c’è stato il trattamento inumano dei più deboli e dei più fragili, costretti tra quattro mura negli ospedali o nelle Rsa, senza la possibilità di un contatto con l’esterno, privati degli affetti, spesso considerati soggetti sacrificabili ma ovviamente per il loro bene.

Queste menzogne accettate come dogmi religiosi da chi ha avuto verso la scienza l’atteggiamento cieco tipico dell’ortodossia militante, sempre pronta ad accettare le più grandi fantasie ammantandole di santa verità.

Se c’è una cosa certa è quella che tutti i progressi scientifici e non, sono avvenuti coltivando il dubbio verso lo status quo, l’esistente e il saputo.

Non dimentichiamo le bugie dietro la narrazione per cui una persona è sana fino a prova contraria e lo strumento per comprovare la non pericolosità sociale dei presunti rei è dimostrato attraverso un tampone. Il tampone strumento che, come sempre accade, sappiamo essere stato spinto per i soliti interessi economici dei pochi, la salute “whatever it takes” a qualsiasi costo, per il paziente. Tamponi che utilizzati a tappeto hanno dato forza e vigore alla narrazione ufficiale, sostenuta e sorretta anche da quelli “venuti dal basso”.

Pure oggi a grande distanza per accedere alle strutture sanitarie pubbliche, si è costretti ad esibire un certificato di buona salute, il green pass, che in fin dei conti corrisponde ad uno di buona condotta, il cui costo sia sociale che economico è sempre in carico del controllato.

Dal canto suo il controllore, investito del potere messianico di scegliere il destino del controllato, fattosi scudo della legge, ha avuto pieni poteri su di lui; non possiamo dimenticare le centinaia di pratiche illogiche e inumane che abbiamo visto e vissuto in questi tre anni.

Per la Treccani il terrorismo è “l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine”; se avessimo preso la stessa enciclopedia stampata però almeno 40 anni fa, prima che il concetto di terrorismo mutasse, a fianco della parola violenza non avremmo trovato l’aggettivo illegittima ma indiscriminata, una differenza sostanziale.

Lo è quando la violenza serve a creare la paura nella società per veicolarne le scelte e poterla dirigere facendole prendere scelte irrazionali.

Le misure che in modo indiscriminato ci hanno colpito e che di fatto, dal giorno alla notte, ci hanno costretto in un regime di semilibertà, quando non peggio di carcerazione domiciliare, sono state norme violente, indiscriminate ma legittime perché legittimate dallo stato.

Il monopolio della violenza e del potere ha permesso l’affermarsi del sistema di gestione, controllo sociale e di vaccinazione forzata che però ha fortunatamente trovato persone integre che non si sono piegate di fronte a quelle pratiche illiberali ed estorsive.

A tre anni di distanza le evidenze sono chiare e l’aggettivo attribuibile a questa “strategia della vaccinazione” e dell’obbedienza appare fin troppo chiaro.

L’odio seminato ha fortunatamente fatto aprire a molti gli occhi, e se non sono ancora sbocciati molti fiori di libertà, le radici per una futura r-esistenza sembrano essere attecchite, perché ahinoi non mutando le condizioni sociali, ambientali della vita umana sulla terra questa pandemia non sarà la prima e non sarà l’ultima.

E ieri come oggi non staremo alla finestra.

Al prossimo scritto.

P.N.

Un sistema che fa acqua

sabato, Luglio 16th, 2022

San Nicolò Po (MN), il fiume Po in secca per la grave  siccità 2022-03-28

Sta destando preoccupazione la situazione idrica nel nord Italia, da settimane si rincorrono notizie sempre più catastrofiche legate alla siccità, ai record di temperature e alle conseguenze sull’agricoltura.

Dalla Marmolada, alle immagini del Po in secca e dei campi della pianura padana resi desertici fino al lago d’Idro considerato bacino artificiale da chi l’arsura di acqua l’ha nel dna una riflessione è indispensabile per uscire dalla retorica vittimistica imposta dal mainstream.

E la facciamo partendo da uno studio internazionale volto al calcolo di quella che è definita impronta idrica, ossia il consumo di acqua dolce da parte di una popolazione per produrre beni specifici, che attesta tra gli 11 e 15mila i litri di acqua necessari per produrre 1 Kg di carne contro i circa 360 Lt per produrre l’equivalente peso di verdure.

Un’enormità che ci deve far riflettere e prendere coscienza dell’assoluta insostenibilità del sistema, non solo perché a parità di consumi garantirebbe una produzione vegetale in grado di soddisfare il fabbisogno di una popolazione prossima a 8 miliardi (togliendo così la famigerata fame nel mondo), ma anche perché i costi non in etichetta li paghiamo comunque da un lato con i finanziamenti pubblici che sostengono e drogano il sistema e dall’altro dai costi che oggi sta pagando l’ambiente dove viviamo.

A fronte di una richiesta di acqua folle e non più supportata dalle precipitazioni la ricetta del mondo agricolo, per bocca del presidente nazionale Coldiretti, è fatta di nuove opere, di tanti invasi artificiali che garantirebbero riserve per i mesi più critici, sommando così al problema idrico quello della devastazione delle opere fatte su spinta emergenziale che andranno così ad aggravare piccole porzioni di un territorio già allo stremo delle forze.

Una visione, quella del mondo agricolo, miope sicuramente inficiata dalla ricerca del profitto e della massimizzazione della produzione, whatever it takes (ad ogni costo), in primis sulla pelle di animali costretti a vite violente, ma conformi alle norme europee sul benessere animale e in seconda battuta sulle nostre vite.

Piccolo inciso, si deve pensare che le norme sul “malessere animale” prevedono per gli allevamenti di polli da carne un massimo di 33 kg di animali per metro quadro (pochi cm quadri a capo) e per i suini di 160 Kg, prossimi alla macellazione, di condurre le loro esistenze in un metro quadro di spazio, mangiando e defecando praticamente uno contro l’altro; e la cosa che fa più arrabbiare è che gli allevatori nostrani le vorrebbero ancora meno stringenti.

Non una parola dal mondo agricolo riguardante lo spreco delle acque e della rete idrica che letteralmente fa acqua; l’Italia è tra le prime in Europa per lo spreco della risorsa, e si badi non si auspica la totale revisione di un sistema distributivo ormai privatizzato ma la blanda richiesta di ottimizzazione della risorsa acqua.

La quasi totalità delle coltivazioni cerealicole lombarde e in genere della totalità della pianura padana, è utilizzata per l’alimentazione animale, vacche da latte, bovini da ingrasso, suini e avicoli. In aggiunta ai diserbi, ai concimi chimici, alla meccanizzazione e alla quasi totale dipendenza da produzioni cerealicole e di soia estere che di fatto hanno mostrato quanta ipocrisia e falsità ci sia dietro al fantomatico “made in Italy”, abbiamo sempre più la convinzione che se venisse considerato l’impronta idrica e in generale l’impatto ecologico di questo sistema nella sua interezza dovrebbe essere fermato domani mattina, per la nostra salute e la salute dei nostri paesi.

Il sistema non fa acqua, ne richiede con sempre maggiore quantità per abbeverarsi con una voracità seconda solo a quella della guerra, i cui collegamenti magari li approfondiremo in un prossimo scritto.

È chiaro ed evidente, e pure auspicabile, che l’allevamento intensivo come lo conosciamo oggi debba finire e finirà, al pari di quelle professioni come il carbonaio o il lustrascarpe o marginali come il calzolaio o l’arrotino, e che oggi troviamo raccontate nei musei etnografici, grande lascito dei saperi e degli errori da non ripetere del passato.

Pernice Nera

Si può mettere la natura in lockdown? Aggiornamento.

mercoledì, Giugno 29th, 2022

Riprendiamo con questo scritto l’approfondimento e le riflessioni legate alla presenza di casi di peste suina africana che sono state trattate in questo articolo lo scorso 10 febbraio https://lavallerefrattaria.noblogs.org/post/2022/02/10/lockdown-alla-natura/ .

Dai primi casi riscontrati in gennaio tra Liguria e Piemonte, che hanno immediatamente fatto scattare misure emergenziali e quindi restrittive (il legame anche alla luce della situazione pandemica è ormai assodato), si è giunti lo scorso 5 maggio al ritrovamento di un giovane cinghiale morto e infetto nella zona nord della città di Roma, in provincia di Rieti.

La presenza di questi suidi a Roma e nel Lazio è balzata alle cronache nazionali già negli scorsi mesi con alcuni video che li ritraevano scorrazzanti in aree urbane e liberi di grufolare tra i rifiuti più o meno abbandonati, che se da un lato può far piacere vedere la natura che si riprende i suoi spazi dall’altro è fonte di preoccupazione perché è noto che il virus della psa è presente negli scarti o nei residui di carne anche cotta.

Per i casi laziali, che nel frattempo paiono essere fermi, sono state adottate le stesse misure dei casi liguri, fatte di restrizioni, zone interdette (allargate anche all’Abruzzo) e divieti e la soppressione indiscriminata di suini, chiaramente non quelli degli allevamenti intensivi ma di quelli famigliari che nelle zone periferiche e montane spesso rappresentano una fonte di integrazione al reddito e di riciclo degli scarti alimentari.

L’istituzione di zone infette con accesso all’uomo limitato pare essere la soluzione delle autorità che in sfregio a qualsiasi buonsenso, ma sappiamo quanto queste scelte siano funzionali ad un lento processo di soggiogazione, agiscono col tipico atteggiamento di coloro che, incapaci di trovare una soluzione alla causa preferiscono folli idee per tamponare le conseguenze.

La spada di Damocle rappresentata dalla peste suina africana pende sopra le nostre teste e sopra le nostre libertà, l’inazione oggi pare assurda e non è assurdo pensare allo scoppio del bubbone proprio al termine della stagione estiva, salvando così le vacanze degli italiani, e a ridosso dell’inizio della stagione venatoria, con la massima felicità degli anticaccia che oltre a soluzioni strampalate come la sterilizzazione dei cinghiali tacciono sul tema.

La normativa comunitaria, nel caso di presenza di focolai prevede la sospensione della caccia nelle aree infette, sia per il paventato maggior rischio di diffusione della malattia attraverso le movimentazioni degli animali selvatici spaventati dall’attività venatoria che per mezzo del trasporto del virus mediante mezzi di trasporto, attrezzi, indumenti, scarpe.

L’inazione può essere rischiosa, tacere e non far nulla è pericolosissimo, questa pandemia per sua natura non può essere eradicata, dove c’è è endemica, e il silenzio avvalora il processo di normalizzazione della situazione di emergenza che è già in corso.

È importante opporsi a queste restrizioni assurde e volute ed è altrettanto importante opporsi alla difesa di un comparto produttivo, quello dell’allevamento e della trasformazione della carne suina, che oltre a rappresentare un sistema dannoso per l’ambiente (un esempio, le deiezioni liquide dei suini sono causa di inquinamento delle falde nelle aree ad alta concentrazione degli allevamenti) è innaturale per gli animali stessi, costretti a trascorrere tutta la vita in spazi angusti, sporchi e sovraffollati.

Opporsi per non ritrovarci costretti come maiali rinchiusi negli spazi sempre più stretti previsti dal benessere dell’animale, in questo caso umano, soggiogato al profitto di quegli allevamenti e legiferato da chi ci vorrebbe sempre più ingabbiati e obbedienti tra casa e lavoro.

Pernice Nera

Si può mettere la natura in lockdown?

giovedì, Febbraio 10th, 2022

Ha creato grande allarme il ritrovamento lo scorso 7 gennaio 2022 delle prime carcasse di cinghiali morti per la famigerata peste suina africana, malattia virale che colpisce cinghiali e suini. I primi capi trovati nel Comune di Ovada, in provincia di Alessandria, hanno destato estrema preoccupazione per la contagiosità della malattia, che però non è trasmissibile all’uomo, e hanno fatto immediatamente attivare gli enti preposti alla vigilanza.

Già dopo pochi giorni il mistero della salute ha rilasciato due circolari contenenti specifiche misure di emergenza, a distanza di pochi giorni il 13 e 18 gennaio, queste circolari hanno istituito una zona infetta, che oggi comprende 78 comuni del basso Piemonte, tutti in provincia di Alessandria, e 36 in Liguria (Genova e Savona) entro cui vengono prescritti dei divieti per impedire una lunga serie di attività all’aria aperta, quali esercizio venatorio, raccolta funghi, trekking e che in sintesi introducono un lockdown (l’ennesimo inglesismo pensato per rendere più dolci le restrizioni  confinamenti) finalizzato al contenimento entro quei luoghi della peste suina africana riscontrata nei capi di cinghiali ritrovati morti.

Divieti e repressione dello stato centrale e delle sue ramificazioni che non si limitano a creare aree interdette, novelle “servitù sanitarie”, ma che vanno come sempre a colpire la microeconomia imponendo tra l’altro la macellazione immediata dei suini degli allevamenti famigliari.

Il cinghiale praticamente assente nell’arco alpino e presente in piccoli gruppi negli Appennini, sopravvissuto oggi nella specie autoctona solo in Sardegna, è stato dal primo dopoguerra oggetto di incroci con razze provenienti dall’est Europa o di ibridazione con maiali allevati allo stato brado.

Questi ibridi, grossi fino al doppio della specie autoctona maremmana, più voraci essendo meno selettivi e decisamente più prolifici, una scrofa può arrivare a partorire 2 volte l’anno fino a 12 piccoli a volta, hanno rappresentato inizialmente una fonte di sostentamento alimentare e col passare degli anni, in assenza di un adeguato contenimento, di predatori in grado di limitarne la crescita (i lupi nostrani faticano a competere con questi animali di grossa taglia) e del graduale abbandono dell’uomo dei boschi stanno diventando una vera piaga per chi vive le zone collinare e montane, distruggendo in modo sistematico coltivazioni, prati e pascoli.

Ma non solo perché da Genova a Roma sono oramai quotidiane le scorribande di questi capi filmati a rovistare tra i cumuli di immondizia nelle periferie cittadine.

L’urgenza di contenere la diffusione di questa malattia non è dettata da uno spirito ambientalista o di tutela della salute della fauna selvatica, ma dalla necessità di impedire che questa raggiunga gli allevamenti intensivi della pianura padana.

Immediata e come spesso capita fuori luogo è stata la presa di posizione di molte associazioni pseudo ambientaliste che anziché vedere la luna (la criticità intrinseca degli allevamenti intensivi) guardano il dito attaccando la caccia; Legambiente nazionale, ha lanciato un appello al ministro della Salute Roberto Speranza per l’emanazione di «un’ordinanza che vieti per i prossimi 36 mesi la caccia nelle forme collettive al cinghiale (braccata, battuta e girata) senza rendersi conto che l’assenza di un contenimento del cinghiale può causare solo criticità.

Problemi dati dall’assenza di predatori e dalla prolificità di quegli animali che già nel brevissimo termine può portare a condizioni di sovrappopolamento che possono essere causa di malattie e dello spostamento degli animali.

L’area dove sono stati riscontrati i primi casi di influenza suina africana è strategica perché è quella che mette in collegamento le Alpi con gli Appennini e quindi, potenzialmente, i grossi allevamenti suinicoli della pianura che va da Parma al Friuli, ma anche gli allevamenti della bassa pianura bresciana, cremonese e mantovana. Un corridoio ecologico che negli anni è stato utilizzato da molti altri animali, lupi e sciacallo dorato per citarne due, per allargare il loro habitat.

Pensare che queste misure possano limitare la diffusione della malattia è pura fantasia, ben altre sono forse le intenzioni dietro queste leggi emergenziali.

Se da un lato malattie infettive e allevamenti intensivi sono collegati, l’abbiamo visto con il Covid19 anche se difficilmente sapremo se davvero è davvero di origine animale, dall’altro sappiamo quanto negli ultimi decenni la continua sottrazione di habitat ai selvatici a favore degli allevamenti intensivi, inquietanti sono immagini delle porcilaie in Cina alte 13 piani costruite in mezzo ai boschi, sia possibile causa di trasmissione di malattie col famigerato spillover o salto di specie.

Inoltre, non ci si può esimere dal fare un parallelo tra l’esperimento sociale che vuole sempre più ambiti della vita umana interdetti per la questione sanitaria.

L’esperimento che vuole collegato in una morsa letale la libertà alla salute l’abbiamo visto applicato scientificamente negli ultimi due anni ed ora col pretesto della peste suina africana lo vediamo esteso ad ambiti prima esclusi.

Questa accelerazione, questo passo successivo rispetto al Covid19, non riguarda la salute umana o animale ma quella di un sistema produttivo, quello degli allevamenti intensivi che per loro stessa esistenza sono insalubri. Sistemi insostenibili sia per gli animali costretti a vite artificiali e innaturali, in spazi confinati dove il malessere animale è pianificato e regolamentato da leggi europee e sia per l’ambiente soffocato dalla meccanizzazione, dalla perdita di biodiversità, dalla chimica e delle deiezioni derivanti da questi incubatoi di patologie.

Non è un caso che nelle stalle, in particolar modo di avicoli e suini, le terapie antibiotiche siano prassi e routine pianificate a seconda dell’età degli animali e non estrema ratio in caso di infezioni.

La salute di questo sistema produttivo deve essere garantita e protetta per tutelare il comparto e sua economica e sull’altare di quei profitti viene sacrificata la nostra libertà di movimento, azione e sostentamento. Oggi i comuni interdetti sono nelle regioni ad ovest ma presto, molto presto, potrebbero estendere questa idea di zona infetta in altre regioni, da noi.

Accettare il lockdown anche per la natura può essere il passo definitivo per la normalizzazione del confinamento che dopo socialità, cultura e lavoro toglierebbe definitivamente l’ultimo spazio di libertà che abbiamo goduto nel periodo di confinamento e che nei secoli ha rappresentato rifugio e alcova delle più belle idee di vita, rivolta e libertà.

Contro queste follie per la nostra libertà.

Pernice Nera

I 10 giorni di Trieste

martedì, Ottobre 26th, 2021

Con questo scritto si vuole fornire una cronaca dei 10 giorni che hanno fatto balzare la città e il porto di Trieste alle cronache nazionali. Giorno per giorno verranno elencati i principali fatti accaduti, le dichiarazioni dei principali protagonisti e al termine verranno fornite proposte e analisi per il prossimo futuro di lotte.

L’effettiva entrata in vigore del dpcm del 23 settembre, che ha reso obbligatoria la certificazione verde per accedere ai luoghi di lavoro, ha scatenato proteste in tutta Italia che hanno, fin dai primissimi giorni, trovato il loro focus nella città di Trieste. La ferma posizione dei camalli triestini (circa un migliaio di cui 200 persone, il 40% delle quali non è vaccinato fonte il sole 24 ore 13.10.2021) di rifiutare il certificato verde, sia con tampone che con vaccino, ha portato nei primi giorni di ottobre l’agenzia per il lavoro portuale (Alpt) a proporre di pagare il costo dei tamponi obbligatori. La proposta, supportata anche da una nota della prefettura, ha trovato un secco no sia da parte dei lavoratori che quindi hanno indetto lo sciopero per il successivo 15 ottobre che dal presidente del consiglio Mario Draghi che ha dichiarato pubblicamente la ferma contrarietà.

L’importanza strategica del porto di Trieste è ben rappresentata dall’immagine sotto riportata e travalica le dinamiche di potere e commerciali nazionali. Le ramificazioni ferroviarie collegano il porto con l’area mitteleuropea ed è facile immaginare come i blocchi dichiarati abbiano potuto causare ripercussioni negative e forti danni economici in quegli stati.

Fin dalle prime ore dell’alba di venerdì 15 ottobre, primo giorno di applicazione del dpcm, 9000 persone (fonte Fanpage.it) si sono trovate in città e al varco 4 per manifestare contro l’obbligo di esibizione del certificato verde. Una composizione molto eterogenea, in prima linea i portuali, contrari di sorta e persone legate ai movimenti politici sia anarchici che di estrema destra, quest’ultimi indubbiamente presenti nella città alabardata. Viene comunque garantita la minima movimentazione delle merci

La giornata scorre bene, emerge la figura di Stefano Puzzer quale portavoce del Comitato lavoratori portuali Trieste (di seguito nell’articolo Clpt). La protesta crea clamore e la notizia passa anche sui principali media convenzionali.

In una nota congiunta le segreterie territoriali di Trieste di Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uil Trasporti e Ugl Mare si esprimono così a proposito della giornata di sciopero di oggi nello scalo di Trieste: “Crediamo che debba riprendere quanto prima la piena operatività del porto”.

Sabato 16 ottobre, Trieste si anima e al presidio si aggiungono numerosi manifestanti che da buona parte dello stivale portano sostegno e solidarietà

Verso le sera, ore 19.00, il secondo comunicato del Clpt tra le righe paventa la possibilità di sospendere la protesta, che sarebbe dovuta durare almeno fino al 20 ottobre e lascia sgomenti e basiti i numerosi sodali anti certificato: “Questa prima battaglia l’abbiamo vinta, dimostrando la forza e la determinazione dei lavoratori portuali e di tutti coloro che li hanno affiancati e sostenuti nella difesa della democrazia e della libertà individuale”, ma occorre “fare un passo in avanti assieme alle migliaia di persone e gruppi con cui siamo entrati in contatto in questi giorni”, dunque “da domani torniamo al lavoro chi può ma non ci fermiamo”.

Puzzer dopo l’uscita del secondo comunicato rilascia un’intervista: “il presidio non durerà ad oltranza e la gente che fino ad oggi vi ha preso parte deve andare a casa sua e continuare a manifestare in altro modo; soprattutto chi è venuto da fuori Trieste il quale dovrà raccontare ai suoi concittadini l’esperienza delle proteste di Trieste diffondendo così in tutta Italia consapevolezza e conoscenza, denunciando la criticità totale del Green Pass”

Il comunicato crea sgomento e rabbia che porta i portuali a rivedere la posizione presa: “Vi chiedo scusa, riscriveremo il comunicato. Il presidio va avanti”. Lo ha detto Stefano Puzzer, il portavoce del CLPT, parlando ai no green pass rimasti davanti al molo 4 del porto di Trieste.

Cgil, Cisl e Uil di Trieste in tutta risposta  emettono un comunicato in cui si richiedono che: “si liberi il porto” da chi sta svolgendo il presidio no green pass in questi giorni. “Le legittime manifestazioni di dissenso devono essere garantite ma non possono impedire a un porto e a una città di continuare a generare reddito e prospettive per il futuro. Quelle persone che hanno dimostrato solidarietà a quei lavoratori portuali in presidio facciano un passo in avanti e liberino il porto e quei lavoratori da un peso e una responsabilità che non hanno”.

Domenica 17 ottobre, giornata di ballottaggio delle elezioni comunali (che vedrà la vittoria del candidato del centro destra Roberto Dipiazza), si apre con le dimissioni di Puzzer da portavoce dei portuali; sul suo profilo face book si legge: ““Ho rassegnato le dimissioni dal Clpt Trieste perché è giusto che mi assuma le mie responsabilità. La decisione è soltanto mia e non è stata forzata da alcuno, anzi: il gruppo non voleva accettarle ma io l’ho preteso”.

Terzo giorno di proteste al porto, un grande via vai di persone che aumenta di ora in ora pronte a portare solidarietà ai portuali. Si intravedono le prime divisioni tra le anime che compongono quel blocco, da un lato i portuali e dall’altro i sodali no green pass Trieste. Diverse le anime e diverse le prospettive ma accomunate per ora dalla necessaria abolizione del certificato verde.

Lunedì 18 ottobre i portuali e i no green pass sono sgomberati dal varco 4 del porto con cariche e l’uso degli idranti. Non mi dilungherò sulla descrizione dei fatti, le immagini sono fin troppo evidenti; la polizia in palese violazione della zona franca portuale ha assaltato il presidio con acqua e gas lacrimogeni senza lesinare manganellate ai presenti, pure a chi se ne stava con le mani alzate. Ha fatto il giro del mondo la foto di una donna incinta sanguinante.

I manifestanti sono stati spinti nel parcheggio antistante così da potere essere caricati e successivamente il corteo si è diretto verso il centro di Trieste dove è stato oggetto di cariche anche nel pomeriggio, con tafferugli segnalati fino a sera.

Martedì 19 ottobre il giorno dopo le violenze sbirresche numerosi manifestanti hanno trascorso la notte al porto vecchio o in piazza unità d’Italia. Puzzer consiglia di spostarsi nella piazza, dove tra l’altro ha sede la prefettura, e di abbandonare il porto continuando così le proteste in attesa dell’incontro di sabato 23 ottobre col ministro Patuanelli preventivamente accordato. La piazza durante il giorno è animata da gruppi di persone che la presidiano scandendo slogan.

Il Comitato dei lavoratori portuali di Trieste abbandona le mobilitazioni contro il Green pass. “Visti gli ultimi sviluppi delle mobilitazioni contro il Green pass il Clpt non intende partecipare alla gestione complessiva delle stesse e/o a qualsiasi coordinamento/associazione relativa. Ringraziamo l’amico e collega Stefano Puzzer per tutto il lavoro svolto e gli auguriamo tutto il meglio per il futuro”. Il comitato ha inoltre annunciato che continuerà “il suo impegno sindacale contro l’obbligo di pagare per poter lavorare”.

Balza alla scena nazionale un coordinamento costituito da 5 persone, tra cui Stefano Puzzer e Dario Giacomini, noto medico no vax di Vicenza e primario radiologo sospeso, presidente dell’associazione Contiamoci, che sospinto dalla stampa nazionale pretende di prendere le redini della protesta.

Sempre Puzzer alle ore 17.00 in conferenza stampa, a reti unificate, annuncia la nascita del coordinamento 15 ottobre aggiungendo “La nostra priorità in questo momento è proteggere l’incolumità delle persone e non vogliamo che si ripetano situazioni come quella di ieri. Mantenete ordinata e pulita la piazza”. La strategia della tensione prenquesde forma.

Mercoledì 20 ottobre la nascita del coordinamento 15 ottobre, spinto dalla stampa di regime, divide la piazza sia per il sospettoso protagonismo del suo portavoce che per la prospettiva di lotta incentrata sull’incontro col ministro, che ai più pare una distrazione dalla forma più attiva dei giorni precedenti. La linea collaborazionista del C.15 ottobre è duramente criticata sia dal “Coordinamento no Green pass”, che dal movimento 3V che per voce di Ugo Rossi, suo esponente, in una nota sostiene che “le proposte di incontri ufficiali sono l’arma che lo Stato sta usando per prendere tempo in modo da togliere ossigeno a questo fuoco in crescita” e annuncia che “la nostra battaglia, iniziata a settembre e continuata nelle giornate al porto, prosegue determinata, giorno e notte, fino all’abolizione del green pass”.

La dichiarazione del C15 ottobre conferma i dubbi riguardanti la sua funzionalità a dividere la piazza e stemperare qualsiasi proteste e la sua collaborazione con la prefettura: “Chi ha dormito in piazza Unità”, violando così l’accordo preso ieri sera con il prefetto Valerio Valenti, “lo ha fatto spontaneamente . Noi abbiamo specificato di venire in Porto vecchio”.

La piazza resta animata da poche centinaia di persone che con chiassosi tamburi scandiscono slogan. La repressione muove le proprie pedine con la partenza di una campagna intimidatoria a tappeto amplificata dai social. Fermi e richieste di documenti e messaggi che sconsigliano di andare a Trieste fanno il giro d’Italia. Il prefetto Valerio Valenti dichiara:”S’ipotizza una presenza di 20mila persone alla manifestazione no Green pass a Trieste”.

Giovedì 21 ottobre la piazza è sempre meno popolata da quel movimento colorato e chiassoso dei giorni precedenti. Significativa nella giornata è la protesta organizzata alle ore 13.00 dal Coordinamento No Green Pass di Trieste nell’area del varco 1 del porto di Trieste (l’altro ingresso dello scalo che nei giorni scorsi non era stato coinvolto nella protesta) che però non ha avuto un grande seguito.

In un vicolo periferico e non dalla piazza Puzzer in un video messaggio annulla la manifestazione in programma per venerdì 22 con queste parole:“Stanno venendo centinaia e centinaia di persone qui a Trieste, vogliono venire qui e rovinare l’obiettivo a tutti. Voi, invece, restate a casa, non muovetevi. Questa è una trappola….Non voglio mettere a repentaglio la vostra incolumità, c’è qualcuno che non vede l’ora di approfittare di questo per darci la colpa e bloccare poi le prossime manifestazioni. Fidatevi di me, non vi racconto balle”.

Per disincentivare ulteriormente la presenza in piazza interviene anche il vicepresidente del Friuli Venezia Giulia con delega alla Salute, Riccardo Riccardi che afferma rispondendo ad un’interrogazione consigliare: ”A Trieste si registra una più bassa percentuale di vaccinati rispetto alla media regionale”.

La strategia della repressione preventiva del dissenso, prende effettivamente forma.

Venerdì 22 ottobre la città si sveglia in un clima surreale. Posti di blocco alle vie di accesso, forze dell’ordine in stato d’allerta e musei e biblioteche chiuse dal comune. Vengono emessi fogli di via e effettuati controlli a tappeto (1500 persone controllate fonte e 12 fogli di via fonte questura di Trieste da triesteallnews.it), si respira un’aria viziata e la piazza così depotenziata trascorre la giornata in un clima di attesa, aspettando un Godot che mai arriverà.

Sabato 23 ottobre, il tentativo di porre come unico interlocutore il neonato coordinamento 15 ottobre, spacca definitivamente  il movimento contrario al pass e mentre in tutta Italia le manifestazione che da luglio animano le piazze prendono forza, a Trieste regna il vuoto pneumatico dell’incontro col ministro e centinaia o forse migliaia di triestini (in totale saranno 3500 persone fonte open.online) sfilano per le strade di Udine.

In mattinata il tanto atteso incontro col ministro, accompagnato dal Prefetto di Trieste Valerio Valenti, si conclude con un nulla di fatto; non serviva essere dei veggenti per capire come il governo abbia mandato un ministro di secondo piano che nel migliore dei casi dopo l’incontro avrà preso l’occasione per passare a trovare i parenti essendo lui triestino d’origine. Da Segnalare la presenza di una delegazione di camalli genovesi.

La vittoria programmatica si concretizza in un incontro sterile ed infruttuoso con il ministro che ascoltate le richieste si è impegnato a riferire le istanze al cdm (consiglio dei ministri) e a dare una risposta entro la settimana successiva. Per voce dello stesso Puzzer in piazza annuncia che:”il ministro Patuanelli ci ha detto che sottoporrà le nostre richieste al governo, che ci risponderà martedì”.

La giornata si conclude con la partenza del tour elettorale del coordinamento 15 ottobre, Puzzer parla alla piazza di Belluno.

Riflessione finale

Questi dieci giorni hanno lasciato in noi la sensazione che sia stata persa un’enorme occasione e che il solco che separa chi è sempre più funzionale alla narrazione e alle politiche governative e chi sta pagando cara la propria opposizione si stia sempre più ingrossando.

Ed è innegabile che oltre alle nostre responsabilità date dalla nostra inerzia debbano essere considerate anche quelle del coordinamento 15 ottobre e del suo portavoce fin da subito sotto i riflettori della stampa di regime che li ha innalzati ad unico riferimento delle proteste e che hanno, agitando lo spauracchio della violenza, fatto il gioco dello stato depotenziando quella che poteva essere una delle prime polarizzazioni di protesta contro il governo attuale e le sue politiche liberticide.

Sulla persona Puzzer e sul C15 ottobre in questo scritto sono stati espressi dei giudizi, forse affrettati, ma che a caldo e per come sono andate le cose non potevano non essere detti.

L’errore strategico del non essere stati presenti in quella piazza, in particolar modo nelle giornate di venerdì e sabato, deriva dalla certezza che avere avuto un ruolo nel rallentamento delle operazioni portuali attraverso quelle modalità di protesta attiva avrebbero creato in primis danni economici ai patronati italiani e europei e in secundis ampliare il divario che separa tutti gli apparati funzionali a questo governo e che colpevolmente sta portando avanti questo esperimento sociale.

Non è un caso che perfino il Washington post in un articolo del 16 ottobre abbia evidenziato questa situazione: “L’Italia si è spinta in un nuovo territorio, inesplorato per una democrazia occidentale … L’Italia è stata la prima democrazia occidentale a imporre il lockdown totale. È stata la prima nazione a rendere obbligatoria la vaccinazione Covid per gli operatori sanitari. Quest’estate il governo ha seguito la Francia nell’introdurre il pass per l’accesso a numerose attività. Il primo ministro Mario Draghi ha persino suggerito la possibilità di essere il primo paese al mondo a introdurre un obbligo vaccinale generalizzato per tutti”.

Per quanto riguarda il solco sempre più marcato che c’è tra chi sta avallando la narrazione di regime e chi sta pagando in proprio il caro prezzo delle proprie idee c’è da sottolineare come i sindacati concertativi attraverso il loro operato siano sempre meno a fianco dei lavoratori e sempre più funzionali strumenti a difesa del capitale.

Negli anni ‘20 del novecento l’intellettuale Luigi Fabbri nel libro “La controrivoluzione preventiva” descrisse come il regime di allora  utilizzò la stampa e i numerosi falsi nemici per affermarsi. Oggi quella finta opposizione, che non è ancora chiaro se sia in buona fede o peggio cosciente, sta facendo il gioco di chi da sempre agendo preventivamente vuole depotenziare qualsiasi protesta.

Se ne esce con una grande riflessione o forse lezione, banale, quella di sempre: La lotta paga, sempre.

Pagava quando i portuali con la loro ferma posizione hanno obbligato lo stato e le aziende a scendere al compromesso del pagamento dei tamponi e che di fronte ad un nuovo no hanno dovuto applicare la violenza insita nella loro stessa esistenza e pagherà se ci rendiamo conto di quanto sia necessario uscire con i nostri contenuti dal recinto dove ci vogliono rinchiusi.

Le manifestazioni di queste settimane si stanno stabilizzando, il numero di persone è in aumento e il confinamento fisico, derivato dal dialogo con le autorità, relega in un pericoloso e rischioso circuito di autoreferenzialità sia fisico che mentale.

Abbattere questi limiti, lottare, osare con coraggio per un futuro di libertà e autodeterminazione.

 

La forza ondulatoria della democrazia

mercoledì, Ottobre 20th, 2021

Dallo scorso luglio, ossia dall’adozione del certificato verde o green pass, le piazze centinaia di piazze in Italia sono state animate da numerosissime proteste che hanno trovato spazio in centinaia di città dello stivale.

Due le piazze balzate alle cronache nazionali, Roma dove sabato 9 ottobre un corteo riunitosi per protestare contro la misura del certificato verde, guidato da esponenti dell’estrema destra, ha fatto irruzione dentro una delle sedi della Cgil cittadina e Trieste dove per una decina di giorni il porto e le piazze sono state oggetto di un presidio spazzato via degli idranti e dalle cariche delle forze dell’ordine.

Questi due eventi hanno reso evidente come le infiltrazioni sia per gli ennesimi episodi di cariche a freddo che per le infiltrazioni all’interno dei gruppi manifestanti. L’evidenza, ce ne fosse bisogno, è il filmato che ritrae un fedele servitore mentre scuotere un mezzo della polizia e poi con la stessa disinvoltura prende a pugni e ragazzo inerme fermato.

La ministro degli interni Lamorgese ha riferito al parlamento e durante l’informativa alla camera sui fatti di Roma ha letteralmente detto: ‘In realtà quell’operatore stava verificando anche la forza ondulatoria scaricata sul mezzo e che non riuscisse ad essere effettivamente concluso’.

Se questo aggiungiamo le parole del prefetto di Trieste che riguardo alle proteste della città alabardata si auspica che “Dobbiamo comprimere libertà di manifestare” e per renderla esecutiva “Firmerò ora un provvedimento in cui aggiungeremo piazza Unità d’Italia ai luoghi interdetti alle manifestazioni, almeno fino al 31 dicembre» “Nel bilanciamento degli interessi per me prevale il diritto alla salute sul diritto a manifestare” capiamo come non si possa davvero andare avanti così.

La rabbia monta sempre di più per questi professionisti della repressione e per il loro megafoni, novelli istituiti Lvce di queste menzogne di stato che vengono propagandate incessantemente.

La forza ondulatoria di questa democrazia malata terminale che oscilla tra la più feroce repressione e queste menzogne vergognose che in un paese normale sarebbero rispedite al mittente con altrettanta forza.

Pernice Nera

Sbatti il mostro in prima pagina

domenica, Maggio 2nd, 2021

E’ di pochi giorni fa la notizia dell’emissione dei mandati di cattura e del fermo in Francia di una decina di appartenenti ad alcune delle realtà rivoluzionarie degli anni 70 la rifugiatisi da decenni.

Questi militanti conducevano vite ordinarie e alla luce del sole concesse da quella che è passata alla storia come la “Dottrina Mitterrand”che dalla metà degli anni 80 ha garantito l’asilo politico ai rifugiati d’oltralpe per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica. Lo stato francese al tempo ritenne che sia le conduzioni dei processi e che le pene applicate dal sistema giuridico italiano ma anche le condizioni carcerarie non fossero compatibili con i principi dello stato di diritto francese. Inoltre considerò questa sorta di protezione anche in virtù del fatto che se si fosse concesso l’espatrio queste persone non avrebbero avuto diritto ad un nuovo processo ma sarebbero state incarcerare per scontare le pene affibbiate dai processi condotti in contumacia, spesso senza avvocati difensori.

Una critica in primis al sistema che già allora era considerato il tritacarne che anche oggi è, certificato se mai ce ne fosse ancora bisogno dalla recente condanna della corte dei diritti dell’uomo al regime di ergastolo ostativo, all’accanimento di buona parte della magistratura ben orientata alla repressione e alle vergognose e criminali condizioni di sovrappopolamento e di gestione delle carceri italiane.

La dottrina Mitterrand era stata messa in discussione già nel 2004 dal consiglio di stato francese, massimo organo giurisdizionale amministrativo e consultivo della repubblica francese e poi da una sentenza della corte europea e ciò ha avuto come risultato numerosi arresti tra cui questi ultimi.

Queste valutazioni di principio sono molto pericolose, togliere l’appoggio e lo spazio d’azione per chi non intende uniformarsi alla violenza degli argini democratici e che così faticherà sempre più a trovare protezione o solidarietà anche a livello giuridico è un vulnus dei principi basilari della giustizia.

Impedire ad uno stato di esprimere un giudizio e prendere decisioni basate su un’analisi del merito del sistema giuridico di un’altro stato è un pericoloso precedente. Ed è proprio la schizofrenica dicotomia della corte europea dei diritti dell’uomo che deve farci riflettere; da un lato condanna l’Italia per il suo sistema giustizialista e dall’altro permette che vengano arrestati e condotti a scontare delle pene attribuite proprio dalle leggi poco prima condannate ci deve far riflettere sul ruolo di questi organismi, sul senso reale di giustizia e sulla vendetta applicata dallo stato.

Una vendetta violenta ben rappresentata da quei sadici cosplayer (indossatori di costumi) pronti ad azzannare alla gola e mostrare a reti unificate la bestia catturata come è accaduto per Battisti quando gli allora ministri dell’interno e della giustizia si sono presentati fuori dall’aereo vestiti con l’uniforme della polizia e della polizia penitenziaria privando il prigioniero di quelle garanzie che lo stato e i suoi servitori dovrebbero per primi dare.

Il tutto a decenni da quei fatti, da quei processi e da quel ciclo, da quel percorso politico e rivoluzionario che ha visto lo stato vincere utilizzando però le peggiori armi che di giustizia non avevano nemmeno l’ombra.

Non dimentichiamo che molte e molti latitanti o beneficiari di asilo politico sono dovuti fuggire in Francia per dei reati di opinione, per le condannate subite come mandanti morali e non materiali di certi fatti. Ci deve fare riflettere il filo rosso che lega la necessità di togliere quelle dimensioni di dissenso e lo spazio di protezione per estendere al massimo la giustizia del manganello troppo spesso preventiva.

Per la digos friulana denunciare pubblicamente la gestione del covid nelle carceri ed esprimere solidarietà ai detenuti in rivolta o solidarizzare con le compagne e i compagni inquisiti è sufficiente per aprire le indagini per oltraggio e istigazione a delinquere, un abominio che anche un sincero democratico dovrebbe non tollerare perché l’avvicinamento agli psico-reati di orwelliana memoria pare prossimo.

Già il giorno successivo gli arresti i prigionieri sono stati tutti scarcerati in regime di libertà vigilata in attesa delle varie pronunciazioni per l’estradizione che non verranno pare entro 2 anni.

A 40 anni di distanza i conti con la storia non si cancellano sbattendo il mostro in prima pagina, ma analizzando le responsabilità di tutti i soggetti di questa vicenda soprattutto dello statopartendo dagli anni di politiche e leggi inumane che dagli anni ’70 hanno reso e rendono il sistema giuridico e carcerario classista, torturatore e realmente terrorista.

Pernice Nera

Il vaso di Pandora del sistema carcerario italiano

sabato, Marzo 6th, 2021

Con questo terzo scritto siamo giunti al termine del percorso e di avvicinamento all’anniversario delle rivolte scoppiate l’8 marzo dello scorso anno in numerose carceri italiane e che hanno avuto come triste epilogo l’uccisione di 13 uomini e numerosissimi soprusi.

Ad un anno esatto è forse giusto fare il punto di una situazione, molti sono stati i mesi di silenzi e omissioni dietro quelle violenze, una lunga ricerca che ha richiesto giorni e giorni solo per conoscere i nomi dei morti, e che oggi sono state in parte portate alle cronache grazie anche ad un servizio di Report andato in onda sulla terza rete lo scorso 18 gennaio.

Un servizio che ha aperto uno squarcio rispetto alle violenze e depistaggi degli agenti penitenziari avvenute durante e dopo le rivolte che, per chi segue la situazione carceri, sanno essere purtroppo strutturali.

Il reportage conteneva numerose interviste e testimonianze, dai famigliari agli amministratori delle carceri, e molti spaccati di quel microcosmo di cui è composto il sistema carcerario, tra cui l’intervista al segretario Donato Capece del sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) che incalzato dalle domande sulle violenze ha ribadito il loro agire non cristiano “la reazione è umana perché, se, non è che qui siamo cappellani che prendiamo uno schiaffo e rivolgiamo l’altra guancia come dice il vangelo” e ha candidamente ammesso: “secondo lei potevamo noi usare violenza quando sappiamo che ci sono le videocamere che registrano tutto?”.

Ovviamente sì, per l’impunità da sempre garantita dal cancro dello spirito di corpo e per i processi per tortura che vedono coinvolti decine di questi perfetti prototipi di servitori dello stato.

Sindacati sempre pronti ad denunciare gli abusi, più o meno reali, ma mai ad ammettere le proprie responsabilità;  non possiamo dimenticare i 5 minuti di applausi dei delegati del Sap (altro sindacato poliziesco) in “solidarietà” agli agenti condannati in via definitiva per l’uccisione o meglio il massacro del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi.

E in questo clima, esatto spaccato del sistema carcere, si è innestato il virus che non ha fatto altro che fungere da detonatore in questa situazione portata allo stremo e dalle rivolte si è subito giunti ai pestaggi, ai trasferimenti forzati, sembra ormai certo che anche delle persone poi morte trasferite in fretta e furia seppur in fin di vita, e all’isolamento con l’esterno sempre più duro.

Ma poniamo il fatto che questi uomini non siano davvero morti per le botte ma per l’abuso di farmaci. Come si può pensare che il carcere stia assolvendo ai proprio fini rieducativi e di reinserimento nella società (intendiamoci, la carcerazione resta abominevole e inumana in ogni caso) di queste persone che da mesi e mesi sono private delle libertà e sono sotto il diretto e assoluto controllo dello stato la cui prima reazione ad una modifica di quella la situazione è correre ad assumere farmaci?

E non farmaci qualsiasi, molte morti sono state imputate all’abuso di metadone, farmaco utilizzato come palliativo dell’eroina utilizzato nei percorsi di disintossicazione e forse palliativo anche per i bisogni indotti dal sistematico uso di psicofarmaci.

La risposta è ovvia: il carcere è morte per sua stessa essenza e natura, come lo sono quelle unità che fanno dello spirito di corpo e della difesa ad oltranza delle proprie violenze il fondamento del loro agire.

Fortunatamente non c’è solo report che ha raccontato questi fatti. Fin dai primi momenti famigliari e solidali esterni al carcere hanno cercato di fare uscire quelle grida di dolore e sofferenza. I resoconti dei pestaggi dei perfetti servitori dello stato che travisati hanno massacrato chi chiedeva di non spezzare il legame che li tiene in vita, con l’esterno e con i propri famigliari e amiche e amici, sono stati numerosi e in molti/e abbiamo potuto sapere cosa stava succedendo.

Queste persone hanno da sempre denunciato le violenze, le mancanze, le omissioni di soccorso e la natura meramente costrittiva insite in questo sistema, l’uso a tappeto di psicofarmaci per annichilire gli animi e placare sul nascere qualsiasi ribellione, la disumanità dell’ergastolo e delle pene ostative, un quotidiano spaccato, un quadro sconfortante che certifica il sistema malato che vede oggi numerosi processi per tortura e che rende il carcere, di fatto, privo di qualsiasi fine che le istituzioni democratiche hanno deciso di attribuirgli.

La mitologia greca vuole che dallo scrigno di Pandora uscirono tutti i mali che oggi affliggono l’umanità e che senza la speranza resero il mondo un luogo inospitale. Questa era rimasta intrappolata nel vaso e la curiosità di Pandora facendoglielo riaprire permise che questa si liberasse.

La speranza che da faro oggi ci anima e ci guida in questa notte buia.

Pernice Nera

Un sistema malato

domenica, Febbraio 28th, 2021

Prosegue con questo secondo scritto l’analisi del sistema carcerario italiano, un percorso di avvicinamento all’8 marzo, giorno di lotta trans femminista e triste anniversario delle rivolte scoppiate in moltissime carceri italiane un anno fa.

Dopo l’analisi iniziale riguardante il malessere dato dal sovraffollamento che acuito dal covid ha esasperato la situazione provocando le durissime proteste dello scorso anno, con questo scritto ci contreremo su un aspetto importante del carcere, la recidiva.

Al 2018, secondo i dati del ministero della giustizia, la recidiva per i reclusi in Italia era del 68% circa, molto più alta della media europea, con picchi vicini all’80% per quelle città dove la microcriminalità è più presente, mentre per i prigionieri affidati a misure alternative questa scendeva di poco sotto al 20%.

Purtroppo i reati per cui la recidiva è più presente non sono elencati, possiamo immaginare come la detenzione o lo spaccio di sostanze stupefacenti e la permanenza sul suolo italiano senza i documenti necessari siano tra i più comuni e tra quelli con più alta recidività.

La storia recente ci insegna che basta una legge approvata dal parlamento per essere considerati criminali o innocenti, quindi il dato è interessante ma andrebbe accompagnato dal dettaglio per poterlo valutare nel suo complesso.

Va da se che il parallelo è piuttosto inclemente, la domanda che anche il più giustizialista si deve porre è se il carcere stia davvero assolvendo alla sua funzione di riabilitativa  e reinserimento o sia meramente alla parte costrittiva e punitiva?

La domanda è retorica, lo confermano i detenuti che da dentro ci dicono quanto sia facile avere prescritta una terapia a base di psicofarmaci e quanto sia difficile avere una tachipirina o un colloquio e lo attestano le relazioni, non solo quelle indipendenti ma anche quelle ministeriali.

Se analizziamo poi i costi di questo sistema (nel 2019 circa 2,9 miliardi di euro) vediamo come quasi l’80% della spesa sia impiegata per il personale e ciò potrebbe far pensare che i detenuti siano seguiti; nulla di più falso; abbiamo assistito in questi anni ad una costante ed incessante diminuzioni del personale specializzato sia per il reinserimento che per il supporto psicologico o umano all’interno delle mura.

Alla carenza di personale denunciata quasi giornalmente dai numerosi sindacati di polizia penitenziaria assistiamo parallelamente alla scomparsa di certe figure importanti per i detenuti (ad esempio medici o responsabili dei laboratori) e alla diminuzione della specializzazione del personale e ciò dovrebbe corrispondere ad una diminuzione della spesa ma così non è, anzi tira sempre di più la coperta corta chi già sta al caldo,d’altronde nulla di diverso ci si può aspettare dal tipico atteggiamento parassitario di queste le lobby corporative.

Si aggiunte inoltre che da parte loro non è pervenuta nessuna parola di denuncia riferita ai dieci procedimenti penali per gli episodi di tortura che vedono implicati agenti della polizia penitenziaria, alcuni per le rivolte dello scorso marzo e alcuni per episodi precedenti.

Recidiva, libertà e supporto dei detenuti sono un tema unico quando si analizza la situazione carceraria. E se in medicina la recidiva è il riacutizzarsi di una malattia in via di guarigione o apparentemente già guarita, nel carcere è la misura con cui il sistema calcola, se mai ce ne fosse un’ulteriore bisogno, il proprio fallimento.

Al prossimo articolo.

Pernice Nera

Fonti:

Rapporti 2019-2020 Associazione Antigone

Dati statistici ministero giustizia

Un quadro sconfortante

lunedì, Febbraio 22nd, 2021

A quasi un anno di distanza dalle rivolte carcerarie scoppiate lungo tutto lo stivale, che hanno avuto come triste epilogo la morte di 13 uomini e episodi di violenze poliziesche su cui sta indagando al magistratura, abbiamo deciso di proporre alcune riflessioni sul tema carceri e che verranno strutturate attraverso 3 scritti.

Il fine è quello di fornire un quadro generale del sistema carcerario italiano e un approfondimento delle rivolte dello scorso 8 marzo e della situazione Covid che ha acuito e acutizzato il problema strutturale delle situazione carceraria.

La direzione di questo sistema è in mano al Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria istituito nel 1990 con compiti di gestione amministrativa del personale e dei beni della amministrazione penitenziaria, relativi alla esecuzione delle misure cautelari, delle pene e delle misure di sicurezza detentive e previsti dalle leggi per il trattamento dei detenuti e degli internati.

Dal Dap dipendono quindi le varie forze e unità speciale deputate al controllo dei prigionieri il cui numero è disponibile dai report disponibili nella sezione statistica e pubblicati mensilmente sul sito del Ministero della Giustizia. Da questi apprendiamo che a fronte di una capienza regolamentare di 50551 posti gli internati totali sono 53329 di cui 17691 stranieri e 2250 donne a cui vanno aggiunti circa 30000 che stanno scontando la pena fuori dal carcere, ai domiciliari o in specifiche strutture. Una situazione di sovraffollamento strutturale anche se in lentissima attenuazione basti pensare che a fine 2019 i detenuti erano circa 61000 ma comunque ben lontana da livelli dignitosi, se mai possano essercene.

Dei carcerati di origine straniera, troviamo 5790 europei, 9261 africani, 1311 asiatici, 964 americani e 18 apolidi o nativi in altri luoghi del mondo.

Il numero dei posti è calcolato sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri,ma il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Quindi il regime di deroga è strutturale.

In queste condizioni di sovraffollamento le restrizioni dovute alla pandemia hanno trovato immediata applicazione. Il Dpcm del 3 marzo 2020 ha tolto la possibilità ai prigionieri di effettuare i colloqui con i famigliari e l’unica interfaccia con l’esterno e le informazioni legate al Covid è stata la televisione, che da allora ci ha bombardato quotidianamente.

Ma fosse solo questo, con la scusa del pandemia le varie amministrazioni penitenziarie hanno avuto carta bianca per togliere le piccole libertà personali e numerose sono state le segnalazioni di divieto anche per i colloqui telefonici sia con i famigliari che con i propri legali. (tutte poi confermate dai legali).

La situazione è quindi diventata esplosiva, isolati, sovraffollati e terrorizzati i prigionieri si sono ribellati e la reazione è stata terribile, lo scenario che si prospetta ci parla di violenze, torture e privazioni di una  sospensione della libertà umane al pari dei fatti del G8 di Genova.

Provate ad immaginare alla condizione dei detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli che reclude 2300 prigionieri (pari a più di uno dei nostri paesi) su una capienza di 1650 posti più del 42% , senza informazioni, senza tutele e senza la possibilità di comunicare con l’esterno?

C’è chi di fronte a questa situazione ha prospettato la costruzione di carceri, forse spinto dalle lobby del cemento sempre pronte a lucrare in queste situazioni, così da garantire una detenzione “giusta e dignitosa”.

Qualcuno ha proposto di farle private, su modello americano dove in quelle strutture è attuato un imprigionamento di massa forse neanche paragonabile al sistema stalinista, con più di 2,25 milioni di persone recluse, 4,8 milioni in libertà vigilata a si aggiungono 5 milioni di ex detenuti che hanno perso il diritto di voto.

Un sistema gestito per buona parte da privati che sappiamo quali priorità e quali interessi vogliano difendere e tra la rieducazione e il reinserimento nella vita extracarceraria e la recidiva che ne garantirebbe un profitto immaginiamo bene da che parte stiano.

Lo sappiamo bene perché a loro abbiamo già delegato l’ambiente e la salute con i risultati che ben conosciamo, e delegare anche la vita di queste persone recluse sarebbe solo la ciliegina sulla torta di questo sistema già assassino.

Al prossimo articolo.

Pernice Nera

Fonti:

Dati statistici ministero giustizia

Pena di morte viva

giovedì, Febbraio 18th, 2021

Questo articolo è stato scritto d’impeto mentre si stanno ultimando gli articoli per il triste anniversario delle rivolte carcerarie scoppiate lo scorso 8 marzo in tutta Italia.

La notizia della morte di Raffaele Cutolo non è giunta d’improvviso, le condizioni di salute erano note da tempo, ma è stata immediatamente rilanciata da tutti i media nazionali. Per chi non lo conoscesse Raffaele Cutolo è stato uno dei principali protagonisti delle lotte di potere all’interno dell’universo camorristico degli anni ’80 e ’90 e di numerose oscure vicende italiane.

Una breve biografia: Cutolo nasce a Ottaviano nel 1941, a 22 anni viene condannato all’ergastolo, poi trasformato a 24 anni, per l’omicidio di un giovane al termine di una rissa. Scarcerato nel 1970 per decorrenza dei termini quando gli viene confermata la condanna si rende latitante, breve, fino al marzo 1971. Rimane nel carcere di Poggioreale fino al 1977 quando gli viene riconosciuta l’infermità mentale e viene recluso in un ospedale psichiatrico dal quale evade e resta libero da febbraio 1978 a maggio 1979.

Nuovamente arrestato da allora è recluso prima nelle sezioni di massima sicurezza poi, da quando è stato istituito, in regime di 41 bis; non si è mai pentito né dissociato e non ha mai voluto collaborare con la magistratura.

Solo negli ultimi anni il suo avvocato ha inoltrato delle richieste di scarcerazione per i gravi motivi di salute che lo affliggevano e l’ultima, 3 giorni prima di morire, conteneva l’istanza di attenuazione del regime detentivo, ma il giudice se per le prime ha sempre risposto negativamente per questa non l’aveva ancora presa in considerazione. Pare che pochi giorni prima della dipartita fosse arrivato a pesare 40 chili.

E così è morto la sera di mercoledì 17 febbraio mentre la moglie stava attendendo il permesso per andarlo a trovare all’ospedale di Parma dove si trovava degente da diversi mesi.

Lo scorso febbraio Cutolo è stato ricoverato per problemi respiratori ed è stato dimesso ad aprile. Di fronte alla richiesta di scarcerazione il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva sottolineato, a giugno 2020, come le sue condizioni fossero compatibili con la detenzione, quasi elogiando l’utilità dell’isolamento del regime di 41 bis nel contenimento e nella prevenzione della diffusione del virus e ribadendo quanto la sua pericolosità fosse ancora alta: “Nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un “simbolo” per gruppi criminali”, simbolo per la nuova camorra organizzata sciolta da anni i cui membri se non dissociati o pentiti sono morti.

Sempre lo scorso anno il suo nome è tornato alla cronaca quando è stato inserito nelle liste dei possibili detenuti scarcerabili per l’emergenza pandemica, fatto che aveva creato sdegno su molti giornali.

Di ciò che ha fatto o di ciò che hanno stabilito le sentenze della magistratura non ce ne possiamo occupare in questo articolo, vogliamo però aggiungere un piccola riflessione sul tema carcere e sull’uomo che in regime di isolamento ha, secondo le verità giudiziarie, costituito un impero criminale, ordinato omicidi, tramato con apparati deviati dello stato (deviati per modo di dire) e chissà cos’altro, uomo che ha trascorso ininterrottamente gli ultimi 34 anni e 2 mesi nel regime di isolamento dell’ergastolo ostativo che la corte europea dei diritti dell’uomo ha definito inumano con una storica sentenza nell’ottobre 2019.

La realtà è che Cutolo ha pagato caro il suo silenzio, lo stato non lo può tollerare e quindi l’ha trasformato nella bestia ideale da mostrare nella gabbia, la cui bocca sporca di sangue è servita a giustificare delle sbarre sempre più resistenti. E pure da morto sta assolvendo a questo triste compito, a giustificare la necessità di questo sistema.

Un violento esperimento sociale portato avanti da uomini privi di dignità, mediocri impiegati col gusto per la tortura, che dal tribunale di sorveglianza di Bologna di fronte alla richiesta di scarcerazione della famiglia, motivata dalle precarie condizione di salute, hanno sentenziato la sua pena di morte viva* con un semplice: “sarebbe un accadimento eclatante” con “effetti dirompenti” sugli equilibri criminali in Campania.

Dei perfetti ingranaggi di questo stato assassino.

Pernice Nera

* La pena di morte viva è la definizione data al regime di ergastolo ostativo da Carmelo Musumeci unico ergastolano ad oggi a cui è stato revocato.

 

L’ammucchiata sediziosa

sabato, Febbraio 13th, 2021

Ebbene sì, è successo quello che solo qualche tempo fa si sarebbe potuto solo immaginare. I politici hanno trovato i 209 buoni motivi che li hanno fatto tornare amici e hanno creato il più grande governo che la storia moderna di questo paese ricorda.

Grande lavoro in questi giorni per il ministero della verità , lo smart working non li aiuta ma grande è la dedizione di questi eccezionali servitori del potere di turno.

Lo sanno, sarà difficile cancellare dalla memoria collettiva tutti gli attestati di stima che i politici in questi anni si sono scambiati. Ma sarà sicuramente un lavoro facile per i giornalisti italiani, che con la loro libertà, indipendenza e solerzia hanno collocato l’Italia al 41° posto nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporter Without Borders.

Sarà facile per questi coprofagi che dopo l’ennesimo grande banchetto a base di culo di drago si stanno pure leccando i baffi in attesa della grande fatica. Indomito sarà lo sforzo e sarà fantastico leggere i loro mirabolanti voli pindarici per giustificare gli antichi screzi già cominciati con la sostituzione al grido di governo hunità hunità del vecchio grido di Honestà honestà..

Li vedo riportare le cronache di chi si chiamava psico nano o mafioso di Arcore, orango, Giggino il bibitaro o quelli del mai col partito di Bibbiano o di prima il nord diventato poi prima gli italiani e oggi prima gli europei.

Non sarà facile ma ce la faranno anche perché una cosa c’è da dire, quello che accomuna questa classe politica: sono indistintamente maestri a spartirsi soldi e potere.

Come faranno a farci credere che l’opposizione a questa accozzaglia orgiastica e incestuosa e quindi il futuro visto le lacrime e sangue che presumibilmente ci stanno aspettando, è rappresentata dai fratellini e dalle sorelline d’Italia, che in ordine hanno votato Ruby nipote di Mubarack, le manovre lacrime e sangue del governo Monti, il salva Italia, la legge Fornero (sì proprio lei), il fiscal compat e un’altra serie di mannaie calate non certo sui ricchi.

Una favola a lieto fine, incredibile se non fosse terribilmente vera…Ce la faranno abbiate fede. Ce la faranno come quando torneranno a chiedere il vostro voto.

Ecco pensateci bene, ma non adesso che siete ancora frastornati e eccitati/e da questa quintalata di carne aggrovigliata nei preliminari prima della grande spartizione, pensateci quando quella feccia chiederà il vostro voto, promettendovi mirabolanti riscatti, condizioni di vita migliori e tutte le sovranità che vi possono italicamente eccitare.

Pensateci perché non è una delega che può cambiare le cose ma solo il vostro impegno quotidiano. Alla prossime elezioni camminate, salite su una cima sarà l’occasione perfetta per respirare dell’aria sana e salubre che aiuta corpo e spirito perché è dalle montagne sono scese le migliori ventate di libertà.