Un sistema che fa acqua

San Nicolò Po (MN), il fiume Po in secca per la grave  siccità 2022-03-28

Sta destando preoccupazione la situazione idrica nel nord Italia, da settimane si rincorrono notizie sempre più catastrofiche legate alla siccità, ai record di temperature e alle conseguenze sull’agricoltura.

Dalla Marmolada, alle immagini del Po in secca e dei campi della pianura padana resi desertici fino al lago d’Idro considerato bacino artificiale da chi l’arsura di acqua l’ha nel dna una riflessione è indispensabile per uscire dalla retorica vittimistica imposta dal mainstream.

E la facciamo partendo da uno studio internazionale volto al calcolo di quella che è definita impronta idrica, ossia il consumo di acqua dolce da parte di una popolazione per produrre beni specifici, che attesta tra gli 11 e 15mila i litri di acqua necessari per produrre 1 Kg di carne contro i circa 360 Lt per produrre l’equivalente peso di verdure.

Un’enormità che ci deve far riflettere e prendere coscienza dell’assoluta insostenibilità del sistema, non solo perché a parità di consumi garantirebbe una produzione vegetale in grado di soddisfare il fabbisogno di una popolazione prossima a 8 miliardi (togliendo così la famigerata fame nel mondo), ma anche perché i costi non in etichetta li paghiamo comunque da un lato con i finanziamenti pubblici che sostengono e drogano il sistema e dall’altro dai costi che oggi sta pagando l’ambiente dove viviamo.

A fronte di una richiesta di acqua folle e non più supportata dalle precipitazioni la ricetta del mondo agricolo, per bocca del presidente nazionale Coldiretti, è fatta di nuove opere, di tanti invasi artificiali che garantirebbero riserve per i mesi più critici, sommando così al problema idrico quello della devastazione delle opere fatte su spinta emergenziale che andranno così ad aggravare piccole porzioni di un territorio già allo stremo delle forze.

Una visione, quella del mondo agricolo, miope sicuramente inficiata dalla ricerca del profitto e della massimizzazione della produzione, whatever it takes (ad ogni costo), in primis sulla pelle di animali costretti a vite violente, ma conformi alle norme europee sul benessere animale e in seconda battuta sulle nostre vite.

Piccolo inciso, si deve pensare che le norme sul “malessere animale” prevedono per gli allevamenti di polli da carne un massimo di 33 kg di animali per metro quadro (pochi cm quadri a capo) e per i suini di 160 Kg, prossimi alla macellazione, di condurre le loro esistenze in un metro quadro di spazio, mangiando e defecando praticamente uno contro l’altro; e la cosa che fa più arrabbiare è che gli allevatori nostrani le vorrebbero ancora meno stringenti.

Non una parola dal mondo agricolo riguardante lo spreco delle acque e della rete idrica che letteralmente fa acqua; l’Italia è tra le prime in Europa per lo spreco della risorsa, e si badi non si auspica la totale revisione di un sistema distributivo ormai privatizzato ma la blanda richiesta di ottimizzazione della risorsa acqua.

La quasi totalità delle coltivazioni cerealicole lombarde e in genere della totalità della pianura padana, è utilizzata per l’alimentazione animale, vacche da latte, bovini da ingrasso, suini e avicoli. In aggiunta ai diserbi, ai concimi chimici, alla meccanizzazione e alla quasi totale dipendenza da produzioni cerealicole e di soia estere che di fatto hanno mostrato quanta ipocrisia e falsità ci sia dietro al fantomatico “made in Italy”, abbiamo sempre più la convinzione che se venisse considerato l’impronta idrica e in generale l’impatto ecologico di questo sistema nella sua interezza dovrebbe essere fermato domani mattina, per la nostra salute e la salute dei nostri paesi.

Il sistema non fa acqua, ne richiede con sempre maggiore quantità per abbeverarsi con una voracità seconda solo a quella della guerra, i cui collegamenti magari li approfondiremo in un prossimo scritto.

È chiaro ed evidente, e pure auspicabile, che l’allevamento intensivo come lo conosciamo oggi debba finire e finirà, al pari di quelle professioni come il carbonaio o il lustrascarpe o marginali come il calzolaio o l’arrotino, e che oggi troviamo raccontate nei musei etnografici, grande lascito dei saperi e degli errori da non ripetere del passato.

Pernice Nera

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