Il vaso di Pandora del sistema carcerario italiano
Con questo terzo scritto siamo giunti al termine del percorso e di avvicinamento all’anniversario delle rivolte scoppiate l’8 marzo dello scorso anno in numerose carceri italiane e che hanno avuto come triste epilogo l’uccisione di 13 uomini e numerosissimi soprusi.
Ad un anno esatto è forse giusto fare il punto di una situazione, molti sono stati i mesi di silenzi e omissioni dietro quelle violenze, una lunga ricerca che ha richiesto giorni e giorni solo per conoscere i nomi dei morti, e che oggi sono state in parte portate alle cronache grazie anche ad un servizio di Report andato in onda sulla terza rete lo scorso 18 gennaio.
Un servizio che ha aperto uno squarcio rispetto alle violenze e depistaggi degli agenti penitenziari avvenute durante e dopo le rivolte che, per chi segue la situazione carceri, sanno essere purtroppo strutturali.
Il reportage conteneva numerose interviste e testimonianze, dai famigliari agli amministratori delle carceri, e molti spaccati di quel microcosmo di cui è composto il sistema carcerario, tra cui l’intervista al segretario Donato Capece del sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) che incalzato dalle domande sulle violenze ha ribadito il loro agire non cristiano “la reazione è umana perché, se, non è che qui siamo cappellani che prendiamo uno schiaffo e rivolgiamo l’altra guancia come dice il vangelo” e ha candidamente ammesso: “secondo lei potevamo noi usare violenza quando sappiamo che ci sono le videocamere che registrano tutto?”.
Ovviamente sì, per l’impunità da sempre garantita dal cancro dello spirito di corpo e per i processi per tortura che vedono coinvolti decine di questi perfetti prototipi di servitori dello stato.
Sindacati sempre pronti ad denunciare gli abusi, più o meno reali, ma mai ad ammettere le proprie responsabilità; non possiamo dimenticare i 5 minuti di applausi dei delegati del Sap (altro sindacato poliziesco) in “solidarietà” agli agenti condannati in via definitiva per l’uccisione o meglio il massacro del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi.
E in questo clima, esatto spaccato del sistema carcere, si è innestato il virus che non ha fatto altro che fungere da detonatore in questa situazione portata allo stremo e dalle rivolte si è subito giunti ai pestaggi, ai trasferimenti forzati, sembra ormai certo che anche delle persone poi morte trasferite in fretta e furia seppur in fin di vita, e all’isolamento con l’esterno sempre più duro.
Ma poniamo il fatto che questi uomini non siano davvero morti per le botte ma per l’abuso di farmaci. Come si può pensare che il carcere stia assolvendo ai proprio fini rieducativi e di reinserimento nella società (intendiamoci, la carcerazione resta abominevole e inumana in ogni caso) di queste persone che da mesi e mesi sono private delle libertà e sono sotto il diretto e assoluto controllo dello stato la cui prima reazione ad una modifica di quella la situazione è correre ad assumere farmaci?
E non farmaci qualsiasi, molte morti sono state imputate all’abuso di metadone, farmaco utilizzato come palliativo dell’eroina utilizzato nei percorsi di disintossicazione e forse palliativo anche per i bisogni indotti dal sistematico uso di psicofarmaci.
La risposta è ovvia: il carcere è morte per sua stessa essenza e natura, come lo sono quelle unità che fanno dello spirito di corpo e della difesa ad oltranza delle proprie violenze il fondamento del loro agire.
Fortunatamente non c’è solo report che ha raccontato questi fatti. Fin dai primi momenti famigliari e solidali esterni al carcere hanno cercato di fare uscire quelle grida di dolore e sofferenza. I resoconti dei pestaggi dei perfetti servitori dello stato che travisati hanno massacrato chi chiedeva di non spezzare il legame che li tiene in vita, con l’esterno e con i propri famigliari e amiche e amici, sono stati numerosi e in molti/e abbiamo potuto sapere cosa stava succedendo.
Queste persone hanno da sempre denunciato le violenze, le mancanze, le omissioni di soccorso e la natura meramente costrittiva insite in questo sistema, l’uso a tappeto di psicofarmaci per annichilire gli animi e placare sul nascere qualsiasi ribellione, la disumanità dell’ergastolo e delle pene ostative, un quotidiano spaccato, un quadro sconfortante che certifica il sistema malato che vede oggi numerosi processi per tortura e che rende il carcere, di fatto, privo di qualsiasi fine che le istituzioni democratiche hanno deciso di attribuirgli.
La mitologia greca vuole che dallo scrigno di Pandora uscirono tutti i mali che oggi affliggono l’umanità e che senza la speranza resero il mondo un luogo inospitale. Questa era rimasta intrappolata nel vaso e la curiosità di Pandora facendoglielo riaprire permise che questa si liberasse.
La speranza che da faro oggi ci anima e ci guida in questa notte buia.
Pernice Nera
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