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100 anni di grande guerra

venerdì, Novembre 30th, 2018

Con l’armistizio di Compiègne firmato l’11 novembre 1918 tra l’impero tedesco e le potenze alleate si poteva dire conclusa, almeno dal punto vista militare, la prima guerra mondiale.

Con la fine della guerra che doveva porre fine a tutte le guerre finivano dei mondi ma non finivano certo quelle che sono state le motivazioni che hanno portato a questo infame massacro.

Ma cosa è stata la grande guerra per l’Italia?

La prima guerra mondiale è costata molto cara, 680 mila morti ammazzati, mezzo milione di invalidi e mutilati e un milione di feriti su una popolazione di circa 35 milioni di abitanti. In questa macabra conta dobbiamo considerare che a flagello si aggiunse flagello e dopo la mietitura del fronte ci fu anche quella dell’influenza spagnola che colpì l’Europa e l’Italia e che cuasò, in Italia, circa 4 milioni e mezzo di infettati e da 350 a 650 mila morti, concentrati soprattutto nelle regioni del sud.

La guerra si è potuta sostenere solo su di un sistema repressivo e su di un clima di terrore che ha portato a 870 mila denunce delle quali 470 mila per renitenza alla leva, 350 mila processi celebrati, 170 mila pene detentive tra le quali 15 mila ergastoli e 4028 condanne a morte. Enormemente superiori di quelle inflitte dagli altri stati belligeranti, quasi sempre sotto le 1000.

Condanne a morte inflitte per decimazione come nel caso dell’ammutinamento della Brigata Catanzaro o per puro sadismo, come nel caso dell’artigliere Alessandro Ruffini messo al muro perché non si tolse il sigaro di bocca al passaggio del generale Graziani.

Un macabro conteggio che deve farci riflettere e che deve farci domandare quale può essere l’insegnamento o quali pensieri dobbiamo fare per rendere questa memoria viva oggi a 100 anni di distanza.

Per farlo credo sia necessario smontare pezzo per pezzo la retorica che si è sedimentata nell’immaginario collettivo dal periodo post bellico ai giorni nostri.

Prima di tutto, la gente non voleva la guerra ma la volevano regnanti e governanti impegnati a trattare con le potenze straniere per vedere da che parte faceva più comodo schierarsi.

La gente comune e i contadini non crederono alla retorica patriottica di un fantomatico riscatto nazionale e in numerosissimi casi non si presentarono alla visita di leva o cercarono il modo di tornare dalle proprie famiglie per non lasciarle in miseria.

La retorica “irredentista” che vuole la prima guerra combattuta per liberare le genti trentine e triestine dall’occupazione austriaca, era insisto suolo nelle menti di una piccola elité borghese e appunto non tre le genti comuni.

Come la retorica che vuole la prima guerra combattuta per liberare le genti trentine e triestine e il suolo patrio dall’occupazione austriaca, incredibile menzogna data dal fatto che il concetto di patria e suolo patrio non esistesse nelle menti della popolazione e che comunque come vedremo, era insisto suolo nelle menti di una piccola elite.

Dobbiamo sapere che se i trentini arruolati nell’esercito austro ungarico furono circa 60000, i volontari “irredentisti” che passarono nelle file italiane furono circa 700, perlopiù di estrazione borghese e non certo contadina.

Indice di quanto il desiderio di essere italiani non appartenesse né alla popolazione tirolese e men che meno alle masse contadine ma ad un’ambizione di quelle classi sociali privilegiate.

Oggi sappiamo che probabilmente il Trentino e Trieste sarebbero stati ceduti all’Italia se questa avesse mantenuto la neutralità, ma la spinta dei poteri economici, Fiat in primis, produttrice di armi e materiale bellico, hanno fatto sì che anche all’interno del governo e della compagine socialista per natura antimilitarista, si propendesse per l’interventismo. E questa spinta non fu certo mossa da “nobili” ideali di libertà o per spirito filantropico ma per meri interessi di potere, economici e per il profitto.

Ieri come oggi la guerra è business.

Smontare la retorica e l’alone mistico che circonda la figura de fante contadino che lo vede pronto a morire col pensiero rivolto alla madre e con la bandiera tricolore tra le mani. Nulla di più falso, i contadini volevano fare i contadini e lavorare per fare prosperare le loro famiglie e dovettero vestire i panni militari solo perché avrebbero ricevuto piombo o galera se si fossero opposti. L’episodio della brigata Catanzaro sopracitato è emblematico e di episodi di ribellione e repressione simili, ce ne sono tantissimi.

Per far sì che questa retorica non abbia presa dobbiamo anche fare una riflessione sui pilastri su cui basa la propria propaganda, come il sacrifico, la diversità e l’obbedienza e di come vengono rinvigoriti attraverso la memoria.

L’obbedienza così viene intesa come cieca, quasi fosse un dogma religioso, pilastro di una società guidata da menti illuminate e ovviamente fondata sull’ingiustizia e sul privilegio di pochi, che lascia i governanti e potenti di fare ciò che vogliono senza responsabilità sociali. La stessa idea di obbedienza allo stato o ad un partito che è nell’essenza dei sistemi totalitari, siano essi fascisti, nazisti o comunisti. E come ben sappiamo in questi sistemi la libertà non c’è.

L’obbedienza inculcata con la leva, e che, come scritto anche da don Milani, non può considerarsi virtù e che possiamo oggi considerare fondamento o prerequisito dell’instaurarsi dei nazionalismi e dell’odio basato sulle diversità.

L’obbedienza che tende a inculcare l’odio nel diverso e la diversità come fondamento di un’identità nazionale, identità che si forma per esclusione e non inclusione; noi migliori degli austriaci perché parliamo italiano o perché vestiamo in modo diverso, o perché mangiamo un cibo anziché un altro. Esclusione che svia da quello che deve essere considerato diverso e che ha portato e può portare, a far sì che dei poveri contadini si sparassero per la conquista di un pezzo di terra che non diede mai giovamento a nessuno se non a chi chiese loro di sparare.

Altro aspetto fondamentale è la memoria e la sua mistificazione. In questi giorni si sono succedute molte manifestazioni in ricordo della prima guerra, il 3 novembre per gli austriaci e il 4 per gli italiani, manifestazioni fatte sui luoghi simbolo ma anche nei pressi dei monumenti o dei cimiteri militari.

Dovrebbe far riflettere e ci deve far fare un grande esame di coscienza, che oggi i principali, e forse unici, promotori dei monumenti alla memoria o a ricordo siano quasi solo le associazioni d’arma, fatto ancora più strano nel momento in cui le stesse promuovono il ripristino della leva che già in passato tanti danni ha fatto e tante vite ha stravolto o spazzato via.

Perché ti mettono in riga e ti fanno diventare uomo dicono, ma in realtà essere uomo vuol dire sapere scegliere da solo ed essere uomo integro, non certo zitto servo esecutore di un volere che non si comprende.

Ci chiediamo che memoria o che concetto di pace possono trasmettere queste realtà, che si pongono in un doppio binario, così preziose e impegnate col volontariato e come difensori della pace e di valori nobili come la solidarietà, che come forza armata e di prevaricazione in tutti i conflitti più o meno conclamati.

Possono avere la giusta distanza per farlo? Possono davvero dare un giudizio o portare una memoria imparziale?

Col titolo dato a questo articolo, “100 anni di grande guerra”, vogliamo ricordare che la grande guerra è terminata dal punto di vista militare esattamente 100 anni fa, ma non è terminata all’interno della società, perché a livello storico e rievocativo resiste ancora quella propaganda mistificante che fa della memoria un mezzo per creare divisioni e diversità.

Dobbiamo riappropriarci della memoria, riscoprire le tante storie ancora sconosciute e riprendere e erigere targhe, monumenti e cippi per far sì che mai nessuno possa permettersi di mistificare o fare propria questa memoria.

La mistificazione della memoria e dei valori collegati ad essa, ieri ha portato allo scempio che abbiamo voluto riassumere numericamente ad inizio articolo e oggi ci devono vedere impegnati affinché non si debbano continuamente erigere monumenti in memoria di qualche guerra e donne e uomini piangere i propri morti.

Per questo vogliamo chiudere questo articolo riportando l’epigrafe della lapide posta nel 1978 nel comune di Moresco provincia di Fermo e che ricorda i caduti nelle 2 guerre mondiali; è una lapide molto forte e molto evocativa che in sé racchiude la più profonda e intima richiesta di chi è perito in guerra e del perché la si debba prevenire sabotandola, disertandola e osteggiandola in tutti i modi.

“Siamo i vostri fratelli
Figli di queste colline.
Ci fu chiesta la vita.
Avevamo poco di più
Ma la demmo lo stesso
Perché voi poteste continuare
A sperare
In un mondo più umano,
non offriteci solo preghiere
ma la rabbia.
Una rabbia feroce
Contro chiunque”
Voglia mettere di nuovo
L’uomo contro l’uomo