Condanna e vendetta

Lo scorso 9 ottobre, la Corte dei Diritti Umani di Strasburgo ha bocciato il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il regime dell’ergastolo ostativo, il cosiddetto “fine pena mai”.

La motivazione che la Corte ha addotto è che l’ergastolo ostativo si pone in contrasto con l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo, in quanto “al soggetto detenuto non è possibile eliminare anche la speranza di un recupero sociale, ma a costui va riconosciuta la possibilità di pentirsi e di avere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni”.

Il ricorso presentato dall’Italia, sul tema di ergastolo ostativo di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, aveva posto l’accento sulla pericolosità di certe condotte criminali, come quelle legate alle mafie e con ciò legittimando una reazione severa nei confronti di coloro che, aderendo ad una organizzazione mafiosa o terroristica, avessero come obiettivo quello di destabilizzare lo Stato.

Questa decisione, ricordiamo non vincolante per l’Italia, crea sicuramente un precedente importante che, oltre a mettere lo stato dinnanzi alle proprie responsabilità, potrebbe aprire la strada a numerosi altri ricorsi da parte di altrettanti detenuti che oggi versano appunto in condizioni disumane.

Questa sentenza ha avuto molto risalto sui media nazionali e ha scatenato tante reazioni, spesso rabbiose, tra le più comuni 2 domande, come si possa sconfiggere la mafia visto che la lotta si basi su queste pene e come chi è stato vittima possa avere davvero giustizia e vedere i colpevoli pagare per i propri crimini.

Pensare che una legislazione così possa sradicare un fenomeno sociale come è la mafia, nelle sue diverse denominazioni, che fonda le sue radici sulle ingiustizie sociali, è assolutamente folle; sono 30 anni che queste leggi sono attive e quei fenomeni non sono certo calati, anzi, e questo perché ne colpiscono solo i risultati e non certo le cause.

Per quanto riguarda la giustizia richiesta dalle vittime deve essere fatta una considerazione di premessa: i condannati all’ergastolo, possono usufruire di permessi “premio” dopo avere trascorso almeno 26 anni in prigione e questi possono essere accordati o meno. L’ergastolo ostativo, introdotto durante gli anni della legislazione di emergenza e di lotta alla mafia e terrorismo, nega di fatto la possibilità di usufruire di semilibertà o permessi e quindi in destino dell’ergastolano è quello di morire in carcere.

Queste persone devono trascorrere un periodo minimo di 26 anni in custodia dello stato che quindi avrebbe tutto il tempo avviare quei programmi di reinserimento, di recupero sociale che di fatto potrebbero portare in modo quasi naturale ad un cambiamento, all’ammissione e al pentimento. Ma le scelte finora adottate sono state quelle di definire queste persone eternamente colpevoli e quindi non meritevoli di alcun percorso o non meritevoli nemmeno della speranza.

Fatta questa premessa ci risulta davvero difficile comprendere come con questa vendetta rappresentata dal regime ostativo possa dare giustizia a chi è stato vittima e di come privando di qualsiasi legame con l’esterno, spesso anche sensoriale e sentimentale si possa pensare che un a persona possa “redimersi” o possa scegliere di collaborare con lo stato, in quella situazione con la veste di aguzzino. Il carcere duro fortifica gli animi e ne estremizza i tratti ed è fucina per nuovi e vecchi integralismi.

Questo concetto è stato ben espresso da Agnese Moro, che al di là della vicenda personale che l’ha coinvolta, ha saputo rendere l’idea di quale sia la reale intenzione di queste leggi o di chi con la bava alla bocca si augura di vedere marcire persone in una gabbia.

“Ci sono purtroppo tante vittime e il dolore terribile di chi resta che deve essere accolto e curato. E’ una responsabilità di tutti noi farlo. Ma, per esperienza, so che non si attenua e non passa perché il colpevole soffre; ma caso mai perché capisce le proprie responsabilità e cambia. Mi amareggia sempre vedere come, invece, il dolore delle vittime sia troppo spesso sfruttato come un’arma, da utilizzare contro provvedimenti che, se approvati o applicati, potrebbero far perdere qualche voto. Salvo poi dimenticare quelle stesse vittime quando chiedono piena applicazione delle leggi che le riguardano, l’apertura di archivi ancora inaccessibili e un po’ di ricordo e di affetto reale per quelli che furono e saranno sempre i loro cari.”

Scrivendo questo articolo non può che venirci in mente Mario Trudu, la cui storia è stata raccontata in questo articolo http://www.vallesabbianews.it/notizie-it/Morir%C3%B2-il-99/99/9999-50563.html e nell’articolo che trattava della presentazione della mostra che si è svolta a Salò dal 12 al 19 ottobre dei suoi libri e disegni.

Mario purtroppo non potrà vedere gli effetti di questa sentenza perché a seguito di alcune complicazioni successive all’operazione per un tumore, mal diagnosticato e non gestito per tempo, ha dovuto aspettare molti mesi per una tac, ci ha lasciati pochi giorni fa, dopo quasi 41 anni di carcere ininterrotto e senza potere vedere uno spiraglio di giustizia in tutta la sua vicenda.

Il nostro pensiero va a lui e a chi oggi, cerca giustizia, perché non è con le leggi o con la vendetta che si può sperare di vivere in un mondo giusto.

Valsabbin* Refrattar*

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