I conti col passato

Questo quinto articolo della rassegna Storia e Memoria è il frutto delle recenti riflessioni conseguenti al discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della commemorazione ufficiale del “giorno del ricordo”.

Nel suo breve intervento pronunciato al Quirinale lo scorso 9 febbraio, il presidente parla di quei fatti descrivendoli come “una sciagura nazionale” che colpì persone “colpevoli solo di essere italiane” augurandosi infine un “no al negazionismo militante”.

Un discorso in perfetta continuità con quelli dei suoi predecessori e in perfetta continuità negazionista delle cause, come se quelle storie, quei fatti, fossero cominciati l’8 settembre o il 25 aprile e non nei 25 anni precedenti, come se i criminali e i carnefici fossero solo i nazisti prima e i comunisti dopo e non gli italiani prima sabaudi e dopo fascisti.

Riteniamo che le sue parole siano la dimostrazione di come il nostro paese non abbia saputo ancora fare i conti con la propria storia e le proprie responsabilità.

Il “giorno del ricordo”, approvato nel 2004 e voluto dalle destre alleate al Governo Berlusconi II, è funzionale anche all’istituzione. Dividere le genti non è solo la base identitaria delle politiche nazionaliste ma è l’essenza che giustifica l’esistenza degli stati nazione e delle relative, strutture politiche e parlamentari espressione degli interessi delle élite economiche nazionali.

Ci chiediamo con quale faccia l’Italia possa recriminare una supposta pulizia etnica e come possa parlare di martiri con le mani grondanti del sangue delle genti oppresse in tutti gli stati che ha occupato militarmente.

È un’ipocrisia inaccettabile, uno schiaffo verso qualsiasi intenzione di pacificazione tra i popoli.

Pacificazione impossibile se il ricordo di quei fatti avviene commemorando solo i “propri” morti o le “proprie” sofferenze, perché la Slovenia avrà i suoi, la Croazia pure e ovviamente anche l’Italia, ma le cause di quei morti o di quelle sofferenze? Quali sono?

Prendiamo ad esempio un altro stato coinvolto nel turbine dell’inizio del ‘900 e della seconda guerra mondiale: la Germania.

La Germania al termine della guerra ha visto la propria nazione divisa e occupata dagli eserciti vincitori e, ha assistito all’emigrazione forzata delle popolazioni germanofone scacciate da quei territori prima sotto la propria giurisdizione.

Si stima furono circa 7.000.000 i tedeschi cacciati dopo il 10 maggio 1945 dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e da molti altri paesi dell’est Europa di cui 1.200.000 morti a seguito di maltrattamenti, malattie e stenti.

Perché in Germania non hanno una giornata del ricordo? Perché non è in corso un processo così evidente di riscrittura della storia?

Molteplici ovviamente le motivazioni, ma una ci ha colpito e ci ha fatto riflettere. In Germania c’è stato un fatto che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario collettivo: il processo di Norimberga.

Al processo più “famoso”, noto soprattutto per la messa alla sbarra dei gerarchi del III Reich, ne sono seguiti altri 12 in cui stati giudicati i crimini degli ingranaggi che hanno permesso al regime nazista di diventare la macchina mortale che è stata. Sono stati processati i burocrati, i medici, i giudici, i ministri e non ultimi anche i poteri economici tedeschi.

E senza avere nostalgie per manette, catene o celle chiuse a doppia mandata, anzi l’odio verso quel sistema repressivo rimane immutato, non possiamo non sottolineare come questi processi, che hanno coinvolto tutti gli strati della società tedesca, abbiano portato ad una condanna sia dal punto giuridico che civile ed abbiano permesso la presa di coscienza e l’ammissione collettiva delle proprie responsabilità.

In Italia invece?

In Italia pressoché nulla, non c’è stata un’assunzione di responsabilità collettiva, il sistema di comando di prima si è perfettamente riciclato nel nuovo regime democratico, gli ingranaggi non hanno subito alcun processo, né nei tribunali né in piazza; i prefetti nella maggior parte dei casi sono tornati negli uffici occupati prima del 25 aprile, i militari sono in pochi anni tornati ai propri posti di comando e i poteri economici che hanno prima finanziato la dittatura fascista e poi si sono arricchiti con l’industria bellica non sono stati assolutamente toccati ne messi in discussione, anzi nel primo dopoguerra si sono ulteriormente arricchiti sfruttando il boom economico e le sovvenzioni del piano Marshall.

Ed infine, le amnistie hanno concluso l’opera, da quella di Togliatti dopo poco più di un anno dalla fine della guerra all’ultima del 1966.

E questa differenza sostanziale tra quanto accaduto in Germania e quanto accaduto in Italia porta oggi a questi fenomeni di palese revisionismo, di mistificazione di quelle morti e quelle sofferenze e della loro utilizzazione per fini politici. E non possiamo non notare che questo non avviene solo da parte dei partiti di destra ma anche da parte di buona parte delle istituzioni.

Questa retorica sulle foibe e sul “giorno del ricordo” si inserisce nella rivalutazione più ampia del ventennio fascista e sono la degna conseguenza di questo fatto, perché un popolo senza memoria storica è un popolo che commetterà gli errori del passato.

Non è un caso se negli ultimi anni si assiste con sempre più frequenza a episodi revisionisti, come ad esempio la marcia carnevalesca in fez e camicia nera a Predappio in pellegrinaggio alla tomba del duce.

Gli errori del passato, riveduti e dimenticati, fanno oggi piangere nuovi martiri, creano nuove frazioni e fomentano nuovi odi che vanno nella direzione opposta alla pacificazione tra i popoli ma soprattutto creano nuovi soldati.

Un soldato che uccide o che obbliga all’esodo dalle proprie case lo fa perché armato, vestito, nutrito, curato ma soprattutto indottrinato, con un lento e subdolo lavoro che ribaltando le responsabilità riscrive una nuova storia, basato sul ricordo che cancella tutto, anche i conti col proprio passato.

Questi conti in sospeso col passato sono la causa delle tante sventure di questo presente e, se non terremo alta la guardia lo saranno del nostro futuro.

Al prossimo articolo. Valsabbin* Refrattar*

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