Verso il totalitarismo tecnosanitario

Luglio 25th, 2021 by currac

Senza volerci autoincensare, attribuendoci il ruolo di inascoltate Cassandre, dobbiamo comunque, in incipit a questo ulteriore pezzo sulla narrazione pandemica, far notare che gli sviluppi degli ultimi giorni altro non fanno che confermare appieno le analisi e le ipotesi portate avanti su questo blog già dalla primavera 2020.
L’ampliamento delle libertà negate in assenza del così chiamato Green Pass, segna un ulteriore
accelerazione verso la piena manifestazione del fenomeno con cui siamo chiamati a confrontarci.
La pressione monta ulteriormente verso chi scelleratamente ancora si ostina a ritenersi padrone del proprio
corpo e non intende bere dal calice del salvifico Graal vaccinale.
A poco servono le obbiezioni riguardanti la sperimentalità del trattamento, la totale assenza di conoscenza
riguardo possibili effetti avversi a medio e lungo termine.
A nulla serve appellarsi alla costituzione, a Norimberga, a Oviedo.
Lo Scientismo dilaga e rinnegando ogni forma di dibattito asfalta le basi proprie della Scienza medica.
I principi di dimostrabilità e confutazione, di precauzione (primum non nocere) vengono sepolti sotto il
peso del nuovo pensiero magico. Il vaccino innalzato al livello di sacramento eucaristico dal primo giorno di
narrazione pandemica è l’unica soluzione per uscire da questa pandemia.
Lo Scientismo non ha bisogno di dover spiegar nulla, nemmeno come sia possibile che i dati di “infezioni” e
ospedalizzazioni siano peggiori quest’anno in Italia con un 50% della popolazione vaccinata rispetto allo
stesso periodo dell’anno scorso senza vaccini, oppure perché i numeri relativi alle “nuove varianti” abbiano
maggiore incidenza proprio nei paesi che più di tutti hanno vaccinato (Israele ed Inghilterra).
Lo Scientismo diviene pensiero unico grazie ad un fuoco di copertura mediatico senza precedenti. Per fare
solo un esempio nonostante fonti ufficiali e pubblicamente consultabili, vale a dire EudraVigilance
(UE,SEE,Svizzera), Mhra (Regno Unito) e Vaers (USA), abbiano registrato più lesioni e decessi correlati alla
vaccinazione dal lancio dei preparati “anti Covid” rispetto a tutti i vaccini precedenti messi insieme fin
dall’inizio storico delle registrazioni, no vi è di ciò menzione alcuna sulla stampa ufficiale.
Non esiste alternativa, chi parla di cure precoci, di necessità di tornare ad investire nella sanità, chi mette in
dubbio l’efficacia e il rapporto costo-beneficio del siero salvavita, per quanto eminente fosse nell’era ante
pandemia, ora deve tacere.
Immediata viene richiesta pubblica abiura. Esemplificativo il caso di Crisanti che dopo aver dichiarato a fine
novembre scorso: “con i dati attualmente a disposizione non mi vaccinerò” a distanza di pochi giorni
rinnegava satana offrendo il braccio in diretta televisiva.
Per chi invece sceglie di non abiurare e si ostina a chiedere trasparenza e dibattito la condanna è
l’ostracismo, la gogna mediatica, i provvedimenti disciplinari ove possibile. Forse in un giorno non lontano il
rogo purificatore.
Molti fra coloro che non erano stati piegati al vaccino da mesi e mesi di puro terrorismo mediatico sul
Covid, si stanno prestando ora alla condizione di cavie umane spinte dalla negazione di elementari diritti
civici e dell’individuo.
Costoro non percepiscono che piegandosi a questi meschini ricatti si infilano in una gabbia più stretta della
precedente; verranno peraltro presto scatenati come massa critica verso chi ha deciso di non uniformarsi,
giocando su una polarizzazione che porta al divide et impera.
Non si illudano costoro, ubbidendo a testa bassa il risultato sarà catastrofico, e questo emergenzialismo che
si autoalimenta non finirà mai. Basti pensare ai nuovi criteri annunciati per i colori delle restrizioni nelle
regioni, con soglie da giallo con 10% delle rianimazioni occupate (si noti che nell’ultimo decennio per tutta la stagione influenzale in Italia si è viaggiato ad una media del 70% delle intensive occupate, soprattutto a
causa di costanti tagli operati dai filantropi che ora vogliono salvarci la pelle ad ogni costo). In pratica al
Molise, con 39 letti posti in terapia intensiva disponibili basteranno 4 ricoverati per far scattare l’allerta.
In altri termini questo significa fine emergenza MAI.
Solo rifiuto e resistenza di una parte consistente della popolazione potrebbero spezzare la spirale
emergenziale e ottenere un cambio di paradigma. Un esempio concreto è il risultato della milionaria
manifestazione di Londra del 26 Giugno scorso che ha portato in pochi giorni a un ribaltamento del discorso
governativo; con un nuovo ministro della sanità che definisce la terribile variante Delta poco più di un
raffreddore con cui bisogna convivere, e ammette che obbligando il sistema sanitario a trascurare ogni altra
patologia in nome della lotta al Covid si è ottenuta una catastrofe ben maggiore.
Altra prova di quanto la resistenza paga è la notizia, di queste ore, che per il personale sanitario del Veneto,
le sospensioni dal servizio per il personale non vaccinato (primo caso di obbligo di categoria al mondo)
saranno congelate; se confermate avrebbero infatti comportato lacune negli organici (già stringatissimi) tali
da non poter garantire il funzionamento del servizio sanitario.
Fronte al clima di assedio contro chi non intende cedere al ricatto, che già assume a livello semantico i
connotati di una operazione militare (si parla apertamente di disertori a cui dare la caccia, di renitenti da
stanare) urge una presa di coscienza a cui faccia seguito resistenza costante ed attiva.
Un regime totalitario prende piede passo dopo passo attraverso un climax di provvedimenti restrittivi e
repressione. Gli stessi italiani del secolo scorso si trovarono proiettati nel fascismo attraverso una spirale di
eventi che non possono essere colti dalle masse mentre li si attraversa. Solo la liberazione e la successiva
storiografia hanno in parte messo a nudo la tirannia del ventennio.
Per chi come noi dall’esperienza storica della resistenza trae ispirazione e linfa vitale, è doveroso farsi
sentire nelle piazze, superando anche i mal di pancia dovuti alla probabile copresenza di figure che
appartenenti al milieu opposto e contrario.
La vergognosa attitudine della sinistra istituzionale (e purtroppo non solo) che si fa carnefice delle più
elementari libertà di un popolo, lasciando paradossalmente l’estrema destra sul piedistallo della difesa dei
diritti dell’individuo; lungi dal rappresentare un ostacolo, questo deve essere per noi ulteriore stimolo a
portare i nostri contenuti, smascherando populismi e false propagande tese a fornire false soluzioni al
problema.
Ancora una volta ribadiamo che quella in atto è la strumentalizzazione di una emergenza sanitaria
(ingigantita mediaticamente e alimentata da decenni di tagli alla sanità pubblica e alla medicina del
territorio) tesa a legittimare una stretta autoritaria imposta dall’oligarchia finanziaria dominante.In altre
parole lotta di classe dall’alto. Per questa ragione l’unica nostra risposta valida per la difesa delle nostre
libertà e dei nostri corpi sarà lotta di classe dal basso.
Muovendo dal presupposto che sono finiti i tempi in cui si è vissuto sulla rendita di lotte passate, portate
avanti con il sangue da precedenti generazioni.
Gli spazi di agibilità civile e politica che quelle lotte hanno generato, e che hanno permesso a molti di
simulare conflitto negli ultimi 40 anni, possono dirsi esauriti. Chi sceglierà ancora una volta di schierarsi e
battersi per il futuro nostro e delle generazioni a venire ancora una volta dovrà farlo con molti concreti
sacrifici sul proprio corpo; e per come stiamo messi ora, la strada sarà lunga, tortuosa e gli esiti incerti. Ma
come ben sappiamo chi non lotta ha già perso, e in qualche modo è già morto.
Winston

Estate (ricreazione) 2021.

A 20 anni dal G8 di Genova 2

Luglio 23rd, 2021 by currac

Prosegue con questo secondo scritto l’analisi e il racconto delle giornate di protesta e proposta contro del G8 svoltosi a Genova nel luglio del 2001.  A 20 anni di distanza da quei fatti ciò che troppo spesso resta nelle nostre memorie sono le violenze di quei giorni che hanno avuto il suo culmine con l’uccisione di Carlo Giuliani.

Il G8 di Genova ha per certi versi rappresentato un punto di svolta sia per le tecnologie utilizzate per “dissuadere” e contenere i manifestanti, ad esempio con l’uso di gas lacrimogeni normalmente utilizzati in teatri di guerra, che per gli episodi di violenza organizzati e le sospensioni ripetute e pianificate a tavolino delle libertà personali dagli allora vertici al comando nominati dall’allora governo Berlusconi.

La scelta di mandare a macellare i manifestanti nelle strade, come con i pacifisti con le mani dipinte di bianco alzate caricati a freddo, o nella scuola Diaz o i soprusi della caserma di Bolzaneto dove le forze dell’ordine picchiavano i fermati al coro di “un due tre, viva Pinochet, quattro cinque sei, a morte gli ebrei, sette otto nove, il negretto non commuove” hanno portato a processi con condanne oggi definitive, sia per chi ha ordinato quelle torture che per chi le ha eseguite ma anche per chi ha depistato le indagini successive.

La cosa che sorprende, ma neanche troppo, è vedere come le stesse persone condannate per quegli episodi siano negli anni state sempre promosse e abbiano potuto continuare a ricoprire dei posti di comando nella gestione della sicurezza nazionale.

Come Gilberto Caldarozzi allora numero due dello Sco (servizio centrale operativo, unità che coordina le squadre mobili delle questure italiane) condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per aver partecipato alla creazione di false prove, nel 2017 nominato vicedirettore della Dia, direzione investigativa antimafia.

O come Francesco Gratteri condannato per falso aggravato per l’irruzione alla scuola Diaz che oggi dichiara che fu ingannato e che non deve chiedere scusa, ingannato da chi e perché non è dato sapersi; o di Gianni de Gennaro capo della polizia durante il G8, per cui l’Italia è stata condannata dalla corte europea dei diritti dell’uomo per non avere impedito le torture, sempre promosso a posti di comando e sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri del governo Monti. Dal 2013 al 2020 è stato presidente dell’azienda Leonardo (ex Finmeccanica), fiore all’occhiello dell’industria della morte italiana.

Lo scorso novembre è stata approvata dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli la promozione a vicequestori di due funzionari di polizia condannati in via definitiva per le false molotov alla scuola Diaz; molotov che hanno costituito l’alibi perfetto per l’irruzione di quegli sgherri e i successivi pestaggi indiscriminati.

Solo alcuni nomi che però ci indicano chiaramente come lo stato i suoi più fedeli e zelanti servitori li ha sempre premiati.

E se i processi hanno forse accertato solo una piccola, minuscola parte di verità, parziale e troppo spesso funzionale, da Genova ad oggi la presenza delle forze dell’ordine e la necessità di controllo preventivo, fatto passare come sicurezza, hanno sempre avuto maggiore peso nelle nostre vite e si sono acuite col periodo covid.

Abbiamo sotto gli occhi i video la spedizione punitiva dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere contro i detenuti che hanno osato rivoltarsi contro la gestione pendemica, che dovrebbero far sobbalzare anche il più convinto democratico o le cariche a freddo subite dai facchini in protesta recentemente passate alle cronache per la morte di Adil Belakhdim, delegato sindacale, investito da un camionista.

E possiamo chiedere che vengano approvati in sede parlamentare il reato di tortura o i numeri identificativi per le forze dell’ ordine ma senza avere chiaro che dare sempre maggiore spazio d’azione, impunità e potere a queste categorie in nome della sicurezza può avere solo l’effetto descritto da Benjamin Franklin padre fondatore degli Stati Uniti d’America, non certo un pericoloso manifestante: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza.”

E se della loro sicurezza poco ce ne facciamo della libertà ce ne occupiamo assai perché Genova come le rivolte carcerarie o come i pestaggi subiti dai facchini in sciopero hanno dimostrano come si possa continuare a parlare di casi isolati, di servitori infedeli o di mele marce che però se vengono continuamente promosse per il loro operato renderanno prima o poi necessario tagliare l’albero dalle sue radici.

E questa volontà di cambiamento è stata anima di quelle giornate e spirito della nostra quotidianità.

Al prossimo articolo.

 

A 20 anni dal G8 di Genova 1

Luglio 17th, 2021 by currac

A 20 anni dalle giornate di Genova, quando dal 19 al 22 luglio 2001 nel capoluogo ligure si riunirono i capi di governo degli 8 paesi più industrializzati per discutere del futuro del mondo, ci sembra giusto parlare di quei momenti raccontando ciò che fu, cercando di analizzare quell’esperienza e raccogliendo quella sorta di “eredità” e lo faremo in tre articoli approfondendo le connessioni tra allora e il periodo contingente, le violenze di quei giorni e quelle di oggi e cercando alcuni spunti per il futuro.

Tra i punti trattati nel vertice ufficiale ci fu la cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo e la lotta alla povertà, lo squilibrio nelle conoscenze tecnologiche, l’ambiente, l’architettura finanziaria e la democratizzazione mondiale.

Parallelamente fu organizzato un contro vertice molto partecipato e numerosi cortei più o meno pacifici volti a interrompere o disturbare la tavola rotonda dei potenti asserragliati in un’area militarizzata chiamata zona rossa, la prima delle tante che poi si sono succedute.

Quelle giornate videro una delle mobilitazioni più importanti del ventunesimo secolo, organizzate da quello che fu allora chiamato movimento “no global”, semplificazione giornalistica per raggruppare le numerosissime voci che animarono quei cortei e quelle idee, che culminò con degli scontri molto pesanti, numerosissimi abusi e la morte del giovane Carlo Giuliani freddato con un colpo di pistola sul viso da un carabiniere.

A due decenni di distanza in un mondo stravolto rispetto ad allora ci sembra doveroso cominciare questa analisi dal tema forse più trasversale della lotta, quello del lavoro anche alla luce del periodo più o meno pandemico che stiamo attraversando e che ha evidenziato come il divario tra le classi subalterne e lavoratrici e i poteri economici e finanziari si sia ampliato.

Un enorme divario, un modello di società uscito dal vertice che ha avuto la sua quasi definitiva affermazione, tant’è che oggi vediamo aziende con dei bilanci pari o superiori a quelli di uno stato e vediamo quel tipo di organizzazione societaria traslato nelle nostre quotidianità.

Aziende come Amazon che ha chiuso il 2020 con un fatturato di 125,56 miliardi di dollari a livello mondiale, in Italia 1,1, miliardi ha imposto a livello globale  quel modello aziendale e sono numerose le analisi volte a fare emergere quella strategia aziendale volta alla trasformazione della forza lavoro a macchine, costantemente tracciate e monitorate affinché la produttività non scenda mai dai livelli “pianificati” forza lavoro che se improduttiva può essere semplicemente sostituita, scartata o rottamata.

Di fronte a queste sproporzioni tra la forza economica e finanziaria e quella lavoratrice, alla flessibilità lavorativa che quel vertice trattò e che oggi sappiamo essersi tradotta in precarietà e vite meno sicure, troviamo assolutamente attuali le tante riflessioni e proposte del controvertice che trattarono di un mondo più locale seppur interconnesso e di un mondo più lento e liberato dall’affanno dell’accumulo capitalista, temi che crediamo siano davvero centrali per il nostro presente e il nostro futuro.

A Genova in un mondo in forte evoluzione, anche se pre smart-life, questa idea di società interconnessa e funzionale al sistema economico fu pensata e pianificata da quelli che allora furono più o meno assediati in quella zona rossa che tante analogie col presente oggi ha.

Una zona invalicabile, controllata e difesa da cerberi armati che può/deve essere spazzata via in un secondo, con una scelta consapevole che il futuro e le nostre libertà sono ancora nelle nostre mani o, con amarezza, nel nostro portafogli.

Fecce tricolori

Giugno 17th, 2021 by currac

Lo scorso mercoledì abbiamo assistito allo spettacolo che solitamente si compie annualmente ai primi giorni di maggio e che in questo secondo anno dal Covid è stato posticipato, la partenza della Mille Miglia, evento tra i più attesi nel capoluogo bresciano.

Quest’anno la kermesse è stata anticipata dal passaggio delle frecce tricolori che con lo loro volo hanno benedetto l’avvio di questa anacronistica competizione.

Così col naso all’insù ammantati dalla scia colorata di questi velivoli abbiamo potuto assistere a come nonostante tutto e nonostante i morti anche in questa occasione si sia scelto di destinare dei soldi a questo spettacolo da corea del nord anziché ad affrontare e chissà mai risolvere i problemi contingenti.

Travolti dal loro rombo abbiamo apprezzato l’uso in-civile di quei mezzi creati per seminare morte; sopra le nostre teste sono passati ospedali, medici, infermieri, lavoro e vita, con gli stessi aerei, ma verniciati con un diverso colore, che sono progettati per abbatterli e distruggerli nelle guerre neo-coloniali, oggi chiamate missioni di pace, dove l’Italia è coinvolta. Nella scia colorata abbiamo visto le decine e decine di migliaia di euro spesi per l’edizione e i milioni di euro per il progetto Pan, pattuglia acrobatica nazionale che così hanno fatto la loro trionfale sfilata in una delle città che avuto le peggiori conseguente da questo periodo più o meno pandemico.

Uno spettacolo indecente, l’ennesima prova di forza e di desiderio di affermazione di un’identità nazionale inesistente imposta grazie alle guerre coloniali di invasione e agli omicidi di massa del periodo risorgimentale e della prima guerra mondiale che oggi viene rinfocolata grazie a questo avanspettacolo da cinegiornale luce.

L’unità nazionale sotto la cui egida siamo chiamati oggi a fare la nostra parte e sotto cui ogni spirito critico è costretto al silenzio.

In questo periodo di crisi e tensioni sociali non possiamo che concludere parafrasando la celebre frase attribuita a Maria Antonietta: “Se non hanno più pane che mangino le brioches”; e se per lei al popolo affamato dovevano essere dati dei croissant oggi al popolo malato devono essere somministrate le frecce tricolori, non certo come antidoto ma come concausa perfetta della peggiore malattia dei nostri tempi: il nazionalismo.

Valsabbin* Refrattar*

 

Nella foto un pilota della Royal Saudi Air Force accusata di crimini di guerra per i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile in Yemen e ospite di riguardo dell’annuale Air Show delle Frecce Tricolori svoltosi il 5 e 6 settembre 2015 a Rivolto.

 

Tempi moderni. Tempi di pandemia.

Maggio 14th, 2021 by currac
Ciò che – già prima della pandemia- si stava rivelando sempre più efficiente era ed è la struttura repressiva.
Innumerevoli gli atti volti a spegnere qualunque forma di dissenso sul nascere:
In primis la super diffusione della paura nella gente;
Le tecnologie militari come il teaser: considerato non letale e perciò spesso visto  sostituito ai richiami verbali. Nonostante siano molti i casi di morti successive ai forti shock;
Gente -pronta in qualsiasi momento!- a chiamare un autorità che intervenga per far rispettare il DECORO! Nel caso qualcun* esca dagli schemi e dagli standard di una normalità sempre più fumosa;
Paura e intolleranza diffusa tiene in piedi tutto ciò.
Psicofarmaci vengono assunti in forma privata, nelle carceri, nei cpr, nei cie,  rems, spdc, crt come non mai!
per sedare la gente e tenerla buona! Dove finisce l’essere umano?
Numerosi sono i casi di Trattamento Sanitario Obbligatorio, dove la leggenda dello psicoreato assume le sue sembianze complete nella realtà.
Se una persona soffre e magari arriva all’esaurimento nervoso è triste sapere che se non ha dietro una rete d’aiuto, conoscenze, amicizie sincere e persone solidali, può finire nei guai.
A chiunque può capitare un periodo difficile della vita. Per qualcun* se non ascoltat* può significare morte.
Reparti, carceri, cie fanno da anni vittime.
Tutt* possiamo avere dei problemi come tutt* purtroppo in una sventura possiamo subire l’abuso da parte della divisa e delle istituzioni.
 La rete capillare repressiva è riuscita ad arrivare a tutte le età, a trovare problemi che prima non venivano nemmeno considerati (vedi i disturbi dell’attenzione).
I numerosi ricorsi a misure speciali – tra gli ultimi casi la richiesta di sorveglianza speciale per Boba a Torino: gli inquirenti argomentano reputando inneggianti alla rivolta alcuni versi, citati da un personaggio del libro che avrebbe scritto “Io non sono come voi”.
Si criminalizza il pensiero e ciò è inquietante.
Per non trovarsi soli o sole ad affrontare questo presente è necessario e fondamentale crearsi appunto una rete di amicizie o collettivi che possa rimanere unita di fronte alle situazioni. Molto spesso, dove non ci sono testimonianze e solidarietà attiva, può finire veramente male per un individuo. Un clamoroso silenzio dona ancor più potere a queste lorde mani dominanti.
Gli esempi di abusi di potere purtroppo sono innumerevoli.
Nessun* deve più finire come Francesco Mastrogiovanni, morto dopo un tso, nell’ignoranza e indifferenza, legato al letto. Come spesso accade in molti reparti dove vigono tutt’ora protocolli di contenzione meccanica al letto o l’elettroschock, ora chiamato “terapia elettroconvulsionante con pre sedazione”.
Come la sorte di Andrea Soldi, morto durante il procedimento di ricovero coatto in un parco di Torino, strozzato dai vigili urbani attivati dopo la segnalazione del padre alla mancata presenza al richiamo farmacologico perchè per far partire un tso basta una qualsiasi segnalazione)
Scegliamo veramente ciò che è meglio per noi, lottiamo senza cedere, stando attenti e critici con ciò che ci circonda.
Non sentiamoci intoccabili (non è così!)
facendo barricate
 contro il NULLA
-guidato dal soldo,
dal virtuale
e dai neurolettici-
che avanza…
Angelo

Sbatti il mostro in prima pagina

Maggio 2nd, 2021 by currac

E’ di pochi giorni fa la notizia dell’emissione dei mandati di cattura e del fermo in Francia di una decina di appartenenti ad alcune delle realtà rivoluzionarie degli anni 70 la rifugiatisi da decenni.

Questi militanti conducevano vite ordinarie e alla luce del sole concesse da quella che è passata alla storia come la “Dottrina Mitterrand”che dalla metà degli anni 80 ha garantito l’asilo politico ai rifugiati d’oltralpe per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica. Lo stato francese al tempo ritenne che sia le conduzioni dei processi e che le pene applicate dal sistema giuridico italiano ma anche le condizioni carcerarie non fossero compatibili con i principi dello stato di diritto francese. Inoltre considerò questa sorta di protezione anche in virtù del fatto che se si fosse concesso l’espatrio queste persone non avrebbero avuto diritto ad un nuovo processo ma sarebbero state incarcerare per scontare le pene affibbiate dai processi condotti in contumacia, spesso senza avvocati difensori.

Una critica in primis al sistema che già allora era considerato il tritacarne che anche oggi è, certificato se mai ce ne fosse ancora bisogno dalla recente condanna della corte dei diritti dell’uomo al regime di ergastolo ostativo, all’accanimento di buona parte della magistratura ben orientata alla repressione e alle vergognose e criminali condizioni di sovrappopolamento e di gestione delle carceri italiane.

La dottrina Mitterrand era stata messa in discussione già nel 2004 dal consiglio di stato francese, massimo organo giurisdizionale amministrativo e consultivo della repubblica francese e poi da una sentenza della corte europea e ciò ha avuto come risultato numerosi arresti tra cui questi ultimi.

Queste valutazioni di principio sono molto pericolose, togliere l’appoggio e lo spazio d’azione per chi non intende uniformarsi alla violenza degli argini democratici e che così faticherà sempre più a trovare protezione o solidarietà anche a livello giuridico è un vulnus dei principi basilari della giustizia.

Impedire ad uno stato di esprimere un giudizio e prendere decisioni basate su un’analisi del merito del sistema giuridico di un’altro stato è un pericoloso precedente. Ed è proprio la schizofrenica dicotomia della corte europea dei diritti dell’uomo che deve farci riflettere; da un lato condanna l’Italia per il suo sistema giustizialista e dall’altro permette che vengano arrestati e condotti a scontare delle pene attribuite proprio dalle leggi poco prima condannate ci deve far riflettere sul ruolo di questi organismi, sul senso reale di giustizia e sulla vendetta applicata dallo stato.

Una vendetta violenta ben rappresentata da quei sadici cosplayer (indossatori di costumi) pronti ad azzannare alla gola e mostrare a reti unificate la bestia catturata come è accaduto per Battisti quando gli allora ministri dell’interno e della giustizia si sono presentati fuori dall’aereo vestiti con l’uniforme della polizia e della polizia penitenziaria privando il prigioniero di quelle garanzie che lo stato e i suoi servitori dovrebbero per primi dare.

Il tutto a decenni da quei fatti, da quei processi e da quel ciclo, da quel percorso politico e rivoluzionario che ha visto lo stato vincere utilizzando però le peggiori armi che di giustizia non avevano nemmeno l’ombra.

Non dimentichiamo che molte e molti latitanti o beneficiari di asilo politico sono dovuti fuggire in Francia per dei reati di opinione, per le condannate subite come mandanti morali e non materiali di certi fatti. Ci deve fare riflettere il filo rosso che lega la necessità di togliere quelle dimensioni di dissenso e lo spazio di protezione per estendere al massimo la giustizia del manganello troppo spesso preventiva.

Per la digos friulana denunciare pubblicamente la gestione del covid nelle carceri ed esprimere solidarietà ai detenuti in rivolta o solidarizzare con le compagne e i compagni inquisiti è sufficiente per aprire le indagini per oltraggio e istigazione a delinquere, un abominio che anche un sincero democratico dovrebbe non tollerare perché l’avvicinamento agli psico-reati di orwelliana memoria pare prossimo.

Già il giorno successivo gli arresti i prigionieri sono stati tutti scarcerati in regime di libertà vigilata in attesa delle varie pronunciazioni per l’estradizione che non verranno pare entro 2 anni.

A 40 anni di distanza i conti con la storia non si cancellano sbattendo il mostro in prima pagina, ma analizzando le responsabilità di tutti i soggetti di questa vicenda soprattutto dello statopartendo dagli anni di politiche e leggi inumane che dagli anni ’70 hanno reso e rendono il sistema giuridico e carcerario classista, torturatore e realmente terrorista.

Pernice Nera

Dacci oggi il nostro tampone quotidiano “dal basso”

Aprile 29th, 2021 by currac

Con la prorompente irruzione di quella che sin dagli albori della narrazione pandemica il potere ha iniziato a chiamare “Nuova normalità” stiamo assistendo, da oltre un anno, all’accelerazione di processi che erano in essere da decenni ma che, grazie all’emergenza sanitaria stanno avendo pieno compimento.

Parliamo della spersonalizzazione e atomizzazione dell’individuo, sempre più slegato dalle maglie del tessuto sociale, già sfilacciate da decenni di neoliberismo, ed ora definitivamente strappate dalle logiche del distanziamento sociale per decreto e della digitalizzazione dell’esistenza.

Dell’ ulteriore gerarchizzazione dei rapporti sociali, con la comparsa di una nuova casta sacerdotale che in camice bianco pontifica a reti unificate sull’evoluzione della pandemia, dicendo tutto ed il suo contrario, avendo come unici capisaldi la proiezione di scenari apocalittici, lo scarico costante di responsabilità verso i cittadini/sudditi, che con i loro irresponsabili comportamenti minano la lotta all’epidemia, e la fede messianica nel nuovo dogma: solo il vaccino potrà tirarci fuori da questo pantano.

Della definitiva militarizzazione della società, attraverso l’utilizzo di un vocabolario da stato di guerra e l’introduzione di misure proporzionali come il coprifuoco, i lasciapassare, la censura. Non è un caso se attualmente il commissario all’emergenza sia un generale che fu a capo delle forze Nato in Kosovo e del contingente nazionale in Afghanistan.

Dell’incedere inarrestabile di un nuovo pensiero unico che non accetta dubbi (ne basta uno e si diviene d’ufficio negazionisti), e meno ancora resistenze, tanto da spingersi ad imporre, momentaneamente “solo” alla categoria dei sanitari, l’obbligo di sottoporsi ad un trattamento sanitario sperimentale, che viene impropriamente definito vaccino, ma che in termini appropriati altro non è che terapia genica.

A breve i nostri spostamenti, e la possibilità di svolgere determinate attività (non ci vuole un indovino per sapere che sarà un climax) saranno definitivamente subordinati all’adesione ad un passaporto sanitario, e si intravede già sullo sfondo la destinazione prossima ventura: un comodissimo microchip sotto pelle in grado di rassicurare noi stessi e chi ci circonda riguardo il nostro stato di salute.

Questo scenario, che dovrebbe far rabbrividire anche il più benpensante dei democratici, pare non allarmare i “compagni” di Radio Onda d’Urto che, dal canto loro, per tutta risposta a questo clima d’assedio contro le più elementari libertà individuali, hanno organizzato una giornata di screening anti-Covid con tamponi rapidi gratuiti o “sospesi”, “dal basso”.

Tralasciando la controversa affidabilità dello strumento, squalificato da una grossa fetta della comunità scientifica (quella che non vedrete mai sui teleschermi), ci chiediamo a che risultati possa portare tale iniziativa.

Aderire attivamente al nuovissimo paradigma che ci vuole “non sani” fino a prova contraria, può portare esclusivamente all’amplificazione numerica di quei dati che da mesi, sbattuti in pasto all’opinione pubblica, servono ad alimentare quel clima di paura e diffidenza verso il prossimo, necessario al potere per avanzare senza resistenze sul cammino di totale dominio intrapreso.

La caccia al portatore asintomatico di un virus , senza precedenti nella storia della medicina, conduce alla determinazione di numeri che nulla significano (oltre che al forzato isolamento domiciliare di persone sane). Mediamente il 95% dei nuovi positivi giornalieri sono asintomatici e la carica virale che veicolano è talmente bassa da non poter determinare un contagio, ma solo ulteriore diffusione asintomatica, esattamente quanto di più auspicabile per poter arrivare a coesistere con questo nuovo virus, come del resto la specie umana ha fatto con migliaia di suoi simili . Un concetto quello della non contagiosità degli asintomatici esposto qualche mese orsono in una conferenza stampa persino dal responsabile tecnico dell’OMS Maria Van Kerkhove (dichiarazioni poi nebulosamente ritrattate il giorno seguente).

Senza il principio cardine centrato sulla pericolosità dell’asintomatico, tutta la narrazione pandemica crollerebbe dalle fondamenta . Quindi si continua dogmaticamente ad insistere sull’effettuazione di oramai quasi 400 mila test giornalieri, utilizzando poi in laboratorio per i molecolari cicli di amplificazione esasperati (quanti esattamente non ci è dato sapere ma pare si aggirino fra i 35 ed i 40, nonostante lo stesso brevettatore abbia indicato che oltre i 25 cicli perdano qualsiasi valore diagnostico) per arrivare a determinare decine di migliaia di “positivi” giornalieri. E’ evidente che modulando i cicli di amplificazione , su cui non esiste alcuna trasparenza ed informazione, si può arrivare facilmente a determinare l’andamento dei dati a proprio piacimento.

A tal proposito dovrebbe farci riflettere il passaggio repentino della Sardegna da zona bianca a zona rossa poche settimane fa dopo l’arrivo degli ispettori del ministero.

L’Italia ha al momento investito quasi 4 miliardi di euro in quest’opera di screening di massa, cifra che avrebbe potuto garantire la costruzione di 7 ospedali di grandi dimensioni (a tal proposito ricordiamo che il sistema sanitario italiano è in affanno da ben prima del COVID, grazie a tagli di oltre 20 miliardi in dieci anni, operati dalla stessa classe dirigente che ora ci vuole salvare la pelle ad ogni costo).

Invece di ingrossare questa filiera, meglio farebbero i “compagni” della Radio a mobilitarsi per la battaglia sulle cure a domicilio, ed appoggiare attivamente quei medici di base che da mesi si battono per poter curare in scienza e coscienza con protocolli certificati dai successi avuti sui loro pazienti, senza doversi attenere alle deleterie indicazioni del Ministero della Sanità, ferme da mesi a tachipirina e vigile attesa.

Gli anticorpi contro la narrazione mainstream, dovrebbero essere garantiti nell’ambiente Radio ed affini da una semplice analisi marxista dei fenomeni. Nel processo totalitario in corso , che noi riteniamo un evoluzione della lotta di classe dall’alto non è difficile constatare chi si stia esasperatamente arricchendo e guadagnando posizioni di potere. Basterebbe dare un occhio ai fatturati delle 10 più grandi multinazionali al mondo durante il periodo pandemico (fra loro vi sono anche le entità che erogano oltre l’ 80% dei finanziamenti di organi ritenuti indipendenti come OMS e AIFA).

Senza questi anticorpi si rischia di accettare acriticamente qualsiasi consegna, lanciandosi in attività che non sono in assoluto di interesse popolare (inteso come classe) .

Arrivando ad emulare quei socialisti che chiedevano a gran voce l’intervento italiano durante la prima guerra mondiale, in nome di un bene comune e superiore chiamato Patria ( è noto a tutti come andò a finire per i proletari italiani, e quale figura di spicco del novecento emerse fuoriuscendo poi da quella corrente).

Perché arrivati poi a questi livelli, “dal basso” diviene solo indice della profondità dell’abisso conformista in cui si è precipitati.

Winston, Aprile 2021.

 

Foto 1: 2 soldati e un equino con maschera antigas durante la prima guerra mondiale.

Foto 2: tratta dall’articolo BRESCIA108 TAMPONI DI CUI 4 RISULTATI POSITIVI. IL BILANCIO DELLA GIORNATA DI SCREENING DAL BASSO del 17.04.2021 sito radiondadurto.org

25 Aprile 2021

Aprile 25th, 2021 by currac

 

Sul senso del dovere

In questo anniversario della festa della Liberazione la riflessione che ci sentiamo fare non può prescindere dalla situazione della nuova normalità pandemica che stiamo attraversando.

Già lo scorso anno, dopo 75 anni dal primo 25 aprile, le nostre vite ordinarie sono state sconvolte e da allora abbiamo assistito ad un bombardamento continuo di notizie, divieti, decreti e soprattutto abbiamo constatato come anche le libertà che pensavamo fossero inviolabili, conquistate in parte con la Resistenza, con la scusa dell’emergenza pandemica siano state serenamente archiviate dando spazio e attuazione a questa nuova normalità.

I parallelismi con quei mesi lontani oggi sono fin troppo evidenti, seppur mossi in parte da motivazioni diverse, anche se collegati da un fil rouge profondo che esiste nel’idea stessa di potere che si sostiene sulla cieca obbedienza della gran parte della popolazione.

Similitudini che riscontriamo nel dibattito intorno al coprifuoco, che questo periodo pare quasi averlo reso strutturale o peggio indispensabile, nelle proroghe continue dello stato di emergenza, nei divieti legati al vivere una socialità spontanea e non ultimo nella presenza dei militari nel governo. Militari per essenza obbedienti e pronti a reprimere qualsiasi dissenso, oggi perfetto alibi per delegare le responsabilità e le scelte individuali e che grazie a questo stato di crisi stanno prendendo sempre più spazio con degli effetti che sono già sotto gli occhi di tutte e tutti. Solo pochi giorni fa un uomo nel placido trentino è stato freddato da un fedele servitore, in casa propria e sotto gli occhi della madre a cui è stato pure impedito di prestare soccorso.

Situazioni che trovano come soluzione la cieca obbedienza e il rispetto del proprio dovere anziché l’orientamento delle proprie scelte e responsabilità individuali in ottica collettiva.

Una situazione per molti versi simile a quella di quegli anni, allora fu chiesto il proprio dovere per la patria, oggi ci viene richiesto di fare la nostra parte, di compiere il nostro dovere per passare questo momento difficile, come se davvero tutto potrà finire così in un attimo come è arrivato.

Il senso del dovere per potere tornare alla libertà di un prima che pare così lontano e bello ma che in realtà è orientato solo a mantenere le attuali dinamiche di potere, perché sia chiaro, più che della nostra salute interessa la nostra capacità lavorativa.

Se c’è un insegnamento che la Resistenza ci ha lasciato è proprio quello che fare il proprio dovere, seguire il dovere richiesto dall’autorità, è la morte delle libertà, seguire i loro richiami in nome di un presunto bene comune è lo stesso che ha portato i nostri compaesani ad invadere paesi, odiare il diverso e accettare passivamente le leggi razziali e tutte le ingiustizie che quel ventennio ha causato, fin dal suo concepimento.

Seguire il proprio sentire consci delle proprie responsabilità individuali e collettive e amare follemente l’idea e i percorsi di Liberazione rispedendo al mittente il richiamo al dovere, plotone d’esecuzione di ogni libertà.

25 Aprile 2021

Valsabbin* Refrattar*

Se Erdogan è un dittatore l’Italia è collaborazionista

Aprile 10th, 2021 by currac

Con le mani grondanti di sangue.

Hanno fatto molto clamore le parole pronunciate dal presidente del consiglio italiano pochi giorni fa a margine di una delle sue periodiche conferenze stampa.

Questo breve discorso, il cui estratto viene riportato fedelmente di seguito, ha scatenato subito le ire dell’amministrazione turca che ha convocato l’ambasciatore italiano e ha immediatamente attivato i principali media italiani, che subito si sono lanciati nel fomentare quel teatrino tipico della politica e dei giochi di palazzo che ha tutto l’interesse a non far emergere il reale significato dietro questo discorso.

“Non condivido assolutamente le posizione del presidente Erdogan, credo sia stato un comportamento inappropriato ,mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente delle commissione europea Von der Leyen ha dovuto subire. (l’assenza di un posto dove sedere durante il loro ultimo incontro ndr)

La considerazione da fare, e forse l’ho già fatta in un’altra conferenza stampa, con questi diciamo, chiamiamoli per quello che sono dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare perché poi, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti,di visioni della società e deve essere anche pronto a collaborare a cooperare, più che collaborare cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese. Questo è importante, bisogna trovare l’equilibrio giusto”

Analizzate queste parole capiamo immediatamente che non ci si trova innanzi al bambino che puntando il dito fa scoprire che il re è nudo, ma ci troviamo nella situazione in cui i registi di questo paese stanno gettando la maschera, veicolando il concetto che unisce in binomio, in un abbraccio mortale, le parole libertà e interessi economici. Siamo liberi e siamo utili fino a che siamo funzionali a questo sistema. Non si spiega come questo cinismo possa essere così sbandierato ed è per questo che di tutto il discorso venga dato eco solo alla parole dittatura e non alla vergogna di questa spregiudicatezza. E i media appecorati in questo intorbidire le acque sono maestri.

E inoltre, può esistere un equilibrio giusto tra l’accettazione di un regime dittatoriale e gli interessi economici? No, ovvio.

Quindi se Erdogan è il ditattore di uno stato dittatorato l’Italia per bocca del suo presidente del consiglio è chiaramente collaborazionista, certo rispettando le proprie diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti,di visioni della società.

Collaborazionista è chi, pur conoscendo bene la caratura dei propri interlocutori e le assenze di libertà nei loro stati, tratta per le forniture di armi (non dimentichiamo le recenti forniture all’Egitto o all’Arabia Saudita), tratta per la tutela delle aziende italiane espatriate per sfruttare meglio la manodopera a basso costo o per pagare meno tasse, tratta perché la Turchia tenga bloccati nei propri lager i migranti siriani o afgani, ceceni o iracheni.

Tratta e tratterà sempre sulla pelle delle e dei giornalisti in carcere, delle torture inflitte ai prigionieri e di chi cerca di attraversare quel paese per cercare un futuro migliore in Europa. Tratta sugli anni di carcere degli oppositori politici o delle minoranze come i curdi o gli armeni sempre oggetto di feroce repressione.

E il governo “dei migliori” collaborazionista lo fa e lo dice per bocca del suo presidente, santificando così il concetto che vede gli interessi economici prima delle libertà e della salute, soldi unico e reale interesse nazionale che viene difeso.

Alla faccia di tutto il resto.

Valsabbin* Refrattar*

Video intervento: https://www.ansa.it/sito/videogallery/italia/2021/04/09/draghi-da-del-dittatore-a-erdogan-ecco-il-passaggio-che-ha-fatto-infuriare-ankara_7d0ad003-603e-410e-b9e6-a249694990fe.html

L’invasione italiana della Jugoslavia

Aprile 8th, 2021 by currac

Dei fanti e alpini devoti alla mamma e delle vie di Bondone e Baitoni.

Una ricorrenza in questi giorni è passata in sordina, l’indigestione di notizie legate al periodo pandemico ha tolto lo spazio a tutto il resto. Stiamo parlando dell’invasione della Jugoslavia che lo scorso 6 aprile ha festeggiato, se così si può dire, l’ottantesimo anniversario.

Il 6 aprile 1941 le truppe fasciste italiane e naziste tedesche con altri alleati diedero il via all’Operazione 25, nome in codice dell’invasione del Regno di jugoslavia.

Una invasione senza neppure una formale dichiarazione di guerra che, come usanza dell’epoca, veniva presentata dall’ambasciatore nelle mani del governo nemico, ennesima riprova della miopia dei governi nazionalisti alla faccia di chi ancora oggi parla di onore di quei regimi (dichiarazione che anche qualora fosse stata presentata nulla avrebbe tolto alle nefandezze e viltà di quei regimi).

Una invasione che ha avuto come prima conseguenza la capitolazione dell’esercito jugoslavo e successivamente la spartizione dei territori. All’Italia fascista toccarono parte della Slovenia, della zona costiera croata e di parte del Montenegro e Albania.

Da quel momento presa il via l’opera di pulizia etnica e di soprusi , confermati dalla viva voce del duce che nel 1943, ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, due anni dopo dell’invasione, disse: “So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”.

Questa data ha un significato molto particolare per chi quei crimini li ha subiti e questo giorno in quei paesi è ampiamente ricordato . Per rendersi conto di quello che è stata l’occupazione italiana di quelle aree è sufficiente passeggiare per i paesi croati o sloveni; uno stillicidio di targhe in ricordo dei caduti, delle centinaia di crimini e violenze, esodi forzati, stupri e privazioni perpetuati dai malefici italiani, dagli alpini e fanti devoti alla mamma e alla patria.

Violenze documentate che andrebbero ricordate annualmente anche soprattutto a chi vuole la giornata del ricordo del 10 febbraio eretta a monumento nazionale, il ricordo che pone al centro dell’attenzione le conseguenze (sempre terribili anche se funzionalmente sovrastimate) e non le cause date dalle proprie responsabilità.

Insomma un giorno dove il ricordo lasci spazio alla memoria storica, condivisa. Ovvio non per i fascisti o i nazionalisti di sorta.

Oggi anche nei nostri paesi troviamo i segni di quel periodo.

Li troviamo nella memoria ma anche nell’intitolazione di alcune vie e sembra assurdo che dopo più di 80 anni ci siano ancora. Stiamo parlando delle intitolazioni approvate nel 1939 dal Podestà di Storo che a Baitoni e Bondoni (al tempo i 2 paesi furono aggregati al comune di Storo con Darzo e Lodrone) procedette con l’intitolazione di alcune via a fascisti della prima ora, come Tullio Baroni e Tito Minniti a Bondone e Aldo Sette a Baitoni.

Sarebbe davvero bello che quelle intitolazioni lasciassero spazio ada una nuova consapevolezza conseguente ad una vera presa di coscienza delle responsabilità perché è davvero assurdo che a più di 80 anni di distanza ci sia ancora il ricordo di queste figure che hanno contribuito a rendere il mondo un posto peggiore.

La biografia legata alle nostre responsabilità è enorme, sta solo alla nostra volontà farlo.

Nel rispetto di quelle sofferenze e di tutte le nostre responsabilità.

Valsabbin* Refrattar*

Nella foto: Donna Jugoslava poco prima di essere fucilata da soldati italiani.

Anche quella mattina

Marzo 15th, 2021 by currac

Normale, Banale e Male.

Anche quella mattina, compiendo i cerimoniosi passi della sua abitudinaria esistenza, dopo barba e caffè, si diresse verso la porta d’entrata del condominio. Puntuale come ogni giorno degli ultimi quattro anni, da quando con la moglie Carla aveva abbandonato il borgo natio nell’Agro Pontino per trasferirsi nella Capitale del rinato Impero, trovò ad attenderlo il giornale. Con un gesto repentino lo portò a sé, richiuse la porta e si diresse verso la poltrona, avido di notizie riguardo le sorti di Primo Carnera; pareva infatti certo che da un momento con l’altro la montagna che cammina, che infinite sconfitte addusse allo straniero, avrebbe annunciato la scelta di appendere i guantoni al chiodo. Al primo colpo d’occhio, non ancora seduto, realizzò che quel giorno di fine autunno il Corriere della Sera trattava argomenti ben più seri e spinosi. La prima pagina era infatti completamente dedicata all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri delle leggi per la difesa della razza.

Nel quarto d’ora che lo separava dall’appuntamento con il tranvia che l’avrebbe trasportato al Liceo dove era docente, Lorenzo apprese parte dei provvedimenti diretti alla marginalizzazione ed esplicita discriminazione dei semiti, orditi con il nobile intento di preservare e proteggere la razza ariana da pericolose contaminazioni. Il tempo stringeva, e dopo aver indossato la camicia nera d’ordinanza, ed aver afferrato la sua valigia da lavoro, si affrettò verso la fermata. Alle otto in punto fece il suo ingresso in classe, omaggiato da tutti i presenti a riverirlo sull’attenti. Il suo pensiero corse a Prospero, che a quell’ora stava certamente ossequiando un suo paria fra i banchi della scuola che frequentava.

Innocente Salvini, Balilla, 1941 (Cocquio Trevisago, Museo Innocente Salvini)

Lorenzo adorava quel giovane uomo che il buon Dio aveva donato a lui e Carla a coronamento del loro matrimonio. Il regime, che esortava ad avere una prole numerosa, avrebbe dovuto loro perdonare l’incapacità di procreare altri figli per la Patria; assidua era stata la loro dedicazione, alla quale purtroppo non fece seguito risultato alcuno dopo il primogenito. Le sue ore di lezione trascorsero lente e monotone, l’insegnamento del latino aveva oramai assunto per lui i tratti di una marcata meccanicità che poco spazio lasciavano all’entusiasmo. La militare disciplina degli alunni rendeva l’ambiente scolastico simile a quello di una caserma, dove l’assenza di fantasia e creatività facevano apparire ogni giornata simile alla precedente lasciata alle spalle . Nel viaggio di ritorno verso casa, si trovò a meditare sui passi compiuti per non vanificare i risultati di tanti sacrifici materiali; in primis quelli dei suoi genitori, che per strappare almeno uno degli otto figli alla maledizione dell’insalubre terra paludosa, nella loro condizione di modesti braccianti avevano profuso tutte le loro energie e possibilità economiche. Ed in secondo luogo alle sue non meno sofferte tribolazioni. La sua abnegazione nel percorso di studi presso la Compagnia di Gesù era stata totale.

Lorenzo aveva passo passo scientemente rinunciato ai bassi istinti del suo mondo contadino, per divenire mirabile esempio di educazione e compostezza. Fece tutto il possibile per fecondare il fiore che gli era stato offerto, conscio che il frutto dell’ascensione sociale per le classi basse fosse riservato a pochissimi fortunati eletti. E vi era riuscito. Quando nel 36, maestro da quattro anni, davanti alla stretta voluta dal ministro De Vecchi per il mondo accademico, decise di prendere la tessera del partito per poter continuare ad esercitare la sua professione non si era certo equivocato. Quella era la scelta giusta, oltre che necessaria per non gettare nel cesso gli sforzi fatti.

Altri colleghi, pochi per la verità avevano scelto di non piegarsi e si erano ritrovati senza lavoro e senza agibilità sociale. Lorenzo per aggiustare i conti con la sua coscienza ed arrivare ad assolversi quando parlava di quegli indomiti lo faceva con fredda sufficienza. Loro se lo potevano permettere, lui no.

Per lui e la sua famiglia un tal gesto di ribellismo avrebbe significato il ritorno alla palude, alla coltivazione conto terzi di terre ingenerose per le quali le visioni di riscatto promosse dalle istituzioni restavano al momento un lontano miraggio. Dalla scelta del tesseramento al calzare una camicia nera il passo era stato breve. In fin dei conti era riuscito a ridargli la giusta neutrale dimensione di indumento. La indossava senza convinzione e se per il suo entourage e per i suoi superiori vederlo così vestito risultava rassicurante tanto valeva, per lui restava una camicia. Così considerata smetteva di essere un simbolo di adesione e sudditanza, lo sforzo non era poi così grande. Ancora una volta si disse di SI, sono nel giusto! I pensieri l’avevano portato lontano, troppo lontano, tanto che solo grazie ad una improvvisa frenata del mezzo tornò alla realtà, accorgendosi di aver oltrepassato la sua fermata. Dopo esser sceso dal tranvia alla successiva, percorse il mezzo miglio che lo separava da casa a passo svelto. Notò con una leggera inquietudine che su svariate attività del quartiere campeggiava un cartello che recitava: ”NEGOZIO ARIANO”. Altre saracinesche erano invece abbassate.

Ad attenderlo in salotto trovò Carla e Prospero. L’operosa moglie aveva servito il pranzo alla solita ora e per non privarlo di calore e fragranza, di fronte al ritardo del marito, l’aveva coperto con dei piatti fondi. Lorenzo per far schermo alla sua sbadataggine addusse che il ritardo era dovuto ad una importante riunione avuta al suo istituto. Pranzarono abbondantemente, grazie a Dio in casa loro non mancava nulla. I discorsi a tavola furono sobri e leggeri, in particolare Prospero tenne banco raccontando con fierezza degli arditi esercizi ginnici svolti a scuola in mattinata con la Gioventù italiana del littorio. Fu quando l’adolescente si accomiatò per buttarsi sui libri di matematica che lo attendevano nella sua stanza, che l’espressione di Carla si fece greve. Il marito lo percepì all’istante, tre lustri di tetto coniugale avevano portato ad una conoscenza reciproca che arrivava ad illuminare i più reconditi angoli dell’intimo. Alla domanda: “C’è qualcosa che non va cara??” non si fecero attendere le di lei esternazioni. Un forte bisogno di condividere con il compagno di vita inquietudini e perplessità era presente in Carla già da qualche tempo. Si mise dunque a raccontare di come il culminare di una propaganda divisiva e discriminatoria in vere e proprie leggi le creassero forti preoccupazioni. Non solo a livello meramente etico, non pochi dei vessati per appartenenza etnica avevano per lei lineamenti e voce, Il suo lavoro di sarta l’aveva portata alla conoscenza di numerose famiglie ebree, ed in alcuni casi le frequentazioni legate alla sua attività si erano trasformate in rapporti di amicizia. Quella mattina, al suo rientro a casa dopo aver accompagnato il figlio a scuola, e aver consegnato i lavori terminati ai clienti, anche lei aveva trovato il tempo di sfogliare il giornale.

L’indignazione che montava con il passare delle pagine era culminata su un editoriale del direttore Borelli, che, ingagliardito dalla croce di guerra recentemente ottenuta come volontario in Etiopia, esortava gli italiani al patriottico gesto della delazione verso i vicini, rei di cospirare contro il bene comune per appartenenza etnica o vigliacchi comportamenti. Per Carla dissentire attivamente era diventato oramai un bisogno fisico. Lorenzo, che in cuor suo condivideva i sentimenti della moglie, non venne però meno al suo accomodante ruolo di mediazione con i fatti. Iniziò rassicurandola sul fatto che poco sarebbe cambiato nella loro quotidianità. Passò poi in rassegna tutte le svantaggiose conseguenze che avrebbero dovuto affrontare se si fossero mostrati contrari al corso degli eventi. Proseguì poi cercando di coscienziare Carla sulla futilità di qualsiasi gesto di ribellione personale per loro; dalle leggi fascistissime del 26, rettificate con Regio Decreto del 31, assembramenti e riunioni erano soggette a fortissime restrizioni. Queste inibizioni avevano inevitabilmente portato allo sfilacciamento di ogni tessuto sociale che non fosse il partito.

La stragrande maggioranza delle coscienze critiche e degli oppositori che non avevano scelto l’esilio o la clandestinità, o che non erano finiti al confino e nelle patrie galere, galleggiavano in una brodaglia che dava ad ogni pensiero di iniziativa il gusto della sterilità. Terminò poi, senza troppa convinzione, adducendo che in fin dei conti era la Scienza stessa che indicava la via ai legislatori. Risaliva infatti alla recente tarda estate la pubblicazione del Manifesto della Razza, redatto e firmato da alcuni fra gli scienziati più in vista del momento. Scrutando le reazioni espressive di Carla capì che la sua tirata non aveva toccato le giuste corde . Piazzò quindi un’ultima stoccata . Toccò il tasto che sapeva avrebbe emesso la nota più acuta, tirando in ballo il bene del figlio e della famiglia stessa. In nome di quella necessità primaria una buona madre doveva per forza di cose rinunciare a qualsivoglia genere di visione personale, sacrificando volontà e propositi sull’altare del nucleo familiare. Carla davanti a tale argomentazione, ancora una volta abbassò il capo e mando giù, come tante volte aveva dovuto fare in passato per assecondare le resilienti attitudini del marito.

Per lei non era stato affatto facile far dimenticare in primo luogo a sé stessa le simpatie socialiste di suo padre, che inevitabilmente avevano marcato la sua educazione e la sua sensibilità. Il suo stomaco però contrariamente alle sue speranze, sembrava non abituarsi mai del tutto agli amari bocconi da deglutire, e quel sapore di rassegnazione le risultava ogni volta più indigesto. Fino a che punto un essere umano avrebbe potuto perdere di vista la personale percezione etica del bene per sottostare a leggi che ad ogni passo allargavano il divario fra ciò che è il giusto e ciò che è invece la giustizia? Carla se lo chiedeva da troppo tempo e da parecchio aveva dentro di sé la risposta. Mancava solo il coraggio delle proprie azioni; un abisso ogni giorno più profondo separava oramai i due coniugi e per evitare di finirne risucchiato Lorenzo non seppe far di meglio che gettarsi ancor più anima e corpo nella carriera. Non poche posizioni di rilievo si erano liberate nel mondo accademico in seguito alla cacciata di semiti e dissidenti. Per un uomo dotato di disciplina e zelo si potevano spalancare porte per il raggiungimento di obiettivi inarrivabili fino a qualche tempo prima. Carla dal canto suo reagì al gelo coniugale aprendo una valvola di sfogo sul mondo.

La necessità di poter condividere le sue inquietudini morali con qualcuno che la potesse capire fino in fondo la portò a riagganciare i rapporti con Emma, una amica di vecchia data, anche lei emigrata dall’Agro Pontino, e anche lei proveniente da una famiglia notoriamente antifascista. I rapporti fra le due si rinsaldarono rapidamente e la consonanza di sentimenti aveva portato in breve tempo alla reciproca fiducia. Fu così che quando Emma le propose di partecipare a delle riunioni clandestine di una camera del lavoro, Carla accettò senza remore e con entusiasmo. Parteciparvi le aveva fatto sperimentare un senso di pienezza tale che non si era tirata indietro neppure davanti al compimento di alcuni volantinaggi di materiale contro il regime nel suo quartiere, seppur conscia di cosa avrebbe comportato per lei e la sua famiglia essere sorpresa facendolo.

Questi piccoli avventurosi spiragli di ribellismo le avevano permesso di rendere da un lato meno pesante la maschera che portava in casa; dall’altro le avevano permesso di visualizzare il momento nel quale l’avrebbe gettata. La Storia con la maiuscola fece ingresso al loro domicilio un giorno di mezza estate del 41 attraverso la cassetta della posta.

Da quel momento gli eventi, che parevano restare sospesi da tempo immemore in una bolla eterea, precipitarono fino a schiantare con una velocità inaudita. Quando Carla adocchiò l’indirizzo mittente la busta divenne di una pesantezza insostenibile. Fu Lorenzo ad aprirla ed afferrare la cartolina precetto che chiamava il giovane Prospero alle armi. Il padre si era adoperato con tutte le sue forze presso ogni eccellente conoscenza per evitare quel momento, ma evidentemente non era bastato. Dopo aver letto al figlio della convocazione presso il distretto militare competente, trovò vigliaccamente la solennità di annunciargli che sarebbe presto divenuto un prode ufficiale del patrio esercito. A queste parole per la prima volta in tanti anni Carla perse il contegno remissivo che si addiceva al suo ruolo femminile gridando: “Tu sei solo l’ombra riflessa di ciò che fù un uomo!”

Insieme a Prospero se ne partì l’ultima ratio che poteva ancora dare un senso alla loro unione. L’illusione di poter continuare a vivere una vita serena aggrappati ad uno scoglio mentre la marea inesorabile continuava a montare era definitivamente svanita.

Carla fece la sua scelta prima che l’acqua raggiungesse la gola. Il biglietto che poche settimane dopo l’arruolamento del figlio lasciò sul tavolo della cucina recitava poche parole ma dense di significato: “Quando l’ingiustizia si fa legge la resistenza è un dovere, io voglio vivere, rinunciare a libertà e morale per sopravvivere non è degno di un essere umano”. Lorenzo non la rivide mai più . Solo a guerra finita seppe da un fratello di lei che si era rifatta la vita con un gappista dopo aver partecipato attivamente a quel che fino a poco tempo prima era definito criminale banditismo, ma che oramai tutti iniziavano a chiamare lotta di liberazione. A quell’altezza oramai anche lui conosceva sin troppo bene quanto velocemente la realtà potesse irrompere nelle storture di una narrazione zeppa di menzogne.

Per mesi e mesi aveva letto ed udito di come il valoroso esercito italiano, al fianco dei suoi alleati, si coprisse di gloria su ogni fronte. La propaganda organizzata dalle tante bocche di giornali e radio era stata spazzata via di un sol botto dalla verità di un’altra epoca che avanzava; allo stesso modo di come spazzata via era stata la vita di suo figlio sul fronte russo. La medaglia al valore che lo ricordava pareva un’ultima tragica beffa a lui riservata dal regime, al quale aveva permesso di farsi trasformare da uomo libero ad automa e schiavo. Anche Lorenzo avrebbe potuto rifarsi una vita nel nuovo mondo, in fin dei conti un individuo resiliente e servile come lui sarebbe stata una pedina utile ed interessante anche per l’emergente sistema di potere. Essere antifascisti in assenza di fascismo era risultato essere un facile camaleontico approccio per molti.

Ma Lorenzo, ad un ulteriore rilancio al ribasso, preferì un ultimo gesto di dignità, un cappio ed una corda.

 

Winston

Inverno 2020-2021

 

 

Il vaso di Pandora del sistema carcerario italiano

Marzo 6th, 2021 by currac

Con questo terzo scritto siamo giunti al termine del percorso e di avvicinamento all’anniversario delle rivolte scoppiate l’8 marzo dello scorso anno in numerose carceri italiane e che hanno avuto come triste epilogo l’uccisione di 13 uomini e numerosissimi soprusi.

Ad un anno esatto è forse giusto fare il punto di una situazione, molti sono stati i mesi di silenzi e omissioni dietro quelle violenze, una lunga ricerca che ha richiesto giorni e giorni solo per conoscere i nomi dei morti, e che oggi sono state in parte portate alle cronache grazie anche ad un servizio di Report andato in onda sulla terza rete lo scorso 18 gennaio.

Un servizio che ha aperto uno squarcio rispetto alle violenze e depistaggi degli agenti penitenziari avvenute durante e dopo le rivolte che, per chi segue la situazione carceri, sanno essere purtroppo strutturali.

Il reportage conteneva numerose interviste e testimonianze, dai famigliari agli amministratori delle carceri, e molti spaccati di quel microcosmo di cui è composto il sistema carcerario, tra cui l’intervista al segretario Donato Capece del sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) che incalzato dalle domande sulle violenze ha ribadito il loro agire non cristiano “la reazione è umana perché, se, non è che qui siamo cappellani che prendiamo uno schiaffo e rivolgiamo l’altra guancia come dice il vangelo” e ha candidamente ammesso: “secondo lei potevamo noi usare violenza quando sappiamo che ci sono le videocamere che registrano tutto?”.

Ovviamente sì, per l’impunità da sempre garantita dal cancro dello spirito di corpo e per i processi per tortura che vedono coinvolti decine di questi perfetti prototipi di servitori dello stato.

Sindacati sempre pronti ad denunciare gli abusi, più o meno reali, ma mai ad ammettere le proprie responsabilità;  non possiamo dimenticare i 5 minuti di applausi dei delegati del Sap (altro sindacato poliziesco) in “solidarietà” agli agenti condannati in via definitiva per l’uccisione o meglio il massacro del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi.

E in questo clima, esatto spaccato del sistema carcere, si è innestato il virus che non ha fatto altro che fungere da detonatore in questa situazione portata allo stremo e dalle rivolte si è subito giunti ai pestaggi, ai trasferimenti forzati, sembra ormai certo che anche delle persone poi morte trasferite in fretta e furia seppur in fin di vita, e all’isolamento con l’esterno sempre più duro.

Ma poniamo il fatto che questi uomini non siano davvero morti per le botte ma per l’abuso di farmaci. Come si può pensare che il carcere stia assolvendo ai proprio fini rieducativi e di reinserimento nella società (intendiamoci, la carcerazione resta abominevole e inumana in ogni caso) di queste persone che da mesi e mesi sono private delle libertà e sono sotto il diretto e assoluto controllo dello stato la cui prima reazione ad una modifica di quella la situazione è correre ad assumere farmaci?

E non farmaci qualsiasi, molte morti sono state imputate all’abuso di metadone, farmaco utilizzato come palliativo dell’eroina utilizzato nei percorsi di disintossicazione e forse palliativo anche per i bisogni indotti dal sistematico uso di psicofarmaci.

La risposta è ovvia: il carcere è morte per sua stessa essenza e natura, come lo sono quelle unità che fanno dello spirito di corpo e della difesa ad oltranza delle proprie violenze il fondamento del loro agire.

Fortunatamente non c’è solo report che ha raccontato questi fatti. Fin dai primi momenti famigliari e solidali esterni al carcere hanno cercato di fare uscire quelle grida di dolore e sofferenza. I resoconti dei pestaggi dei perfetti servitori dello stato che travisati hanno massacrato chi chiedeva di non spezzare il legame che li tiene in vita, con l’esterno e con i propri famigliari e amiche e amici, sono stati numerosi e in molti/e abbiamo potuto sapere cosa stava succedendo.

Queste persone hanno da sempre denunciato le violenze, le mancanze, le omissioni di soccorso e la natura meramente costrittiva insite in questo sistema, l’uso a tappeto di psicofarmaci per annichilire gli animi e placare sul nascere qualsiasi ribellione, la disumanità dell’ergastolo e delle pene ostative, un quotidiano spaccato, un quadro sconfortante che certifica il sistema malato che vede oggi numerosi processi per tortura e che rende il carcere, di fatto, privo di qualsiasi fine che le istituzioni democratiche hanno deciso di attribuirgli.

La mitologia greca vuole che dallo scrigno di Pandora uscirono tutti i mali che oggi affliggono l’umanità e che senza la speranza resero il mondo un luogo inospitale. Questa era rimasta intrappolata nel vaso e la curiosità di Pandora facendoglielo riaprire permise che questa si liberasse.

La speranza che da faro oggi ci anima e ci guida in questa notte buia.

Pernice Nera