Archive for Dicembre, 2020

Il nuovo decreto insicurezza

mercoledì, Dicembre 30th, 2020

Il nuovo decreto sicurezza e l’alienazione del sincero democratico.

Con questo articolo prosegue l’analisi delle politiche securitarie che in questi anni stanno segnando la vita legislativa italiana e in particolare con questo scritto ci vogliamo concentrare sul D.L. 130/2020 dal titolo “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e sicurezza”, il nuovo decreto “sicurezza” approvato in senato lo scorso 18 dicembre e pubblicato in gazzetta ufficiale il giorno successivo.

“I decreti propaganda/Salvini non ci sono più” ha postato sui suoi social il segretario del partito democratico che così ha dato eco all’approvazione del testo; l’ennesima fake news in linea con la gattopardiana massima del “cambiare tutto per non cambiare niente”. Il testo è perfettamente allineato e schierato con quello precedente, non scardinando e non mettendo in discussione l’impostazione che vuole due temi diversi, sicurezza e immigrazione collegati nell’ abbraccio mortale concepito dalle menti razziste del precedente governo (per dovere di cronaca almeno per metà presente in questo).

In questo cortocircuito che ben rappresenta la pochezza di questa classe politica, interessante è l’analisi comunicativa conseguente la promulgazione; grande risalto mediatico è stato dato alla questione migrazioni per cui non sono mancati articoli, servizi tv e post, non un cenno però è stato fatto alla stretta repressiva in atto, in perfetta continuità con i precedenti decreti, perché è ciò che non dicono che deve preoccuparci non solo quello che passa sui media, sempre più e solo megafoni del regime democratico.

Sono sedici gli articoli di questo decreto che seguono il solco sempre più profondo tracciato dal precedente testo e che possiamo racchiudere in tre capitoli: sicurezza urbana, controllo carcerario e immigrazione. In questo articolo analizzeremo solo il primo.

La pubblica sicurezza, perfetto acronimo del controllo totale, viene allargata sempre più alle fasce povere e al dissenso, in particolare a quelle fasce che potenzialmente esasperate dalla crisi, ormai strutturale in questa economia malata terminale, potrebbero alzare o stanno alzando la testa.

Viene ampliato il daspo urbano, misura sperimentata nel mondo ultras e poi allargata e utilizzata per regolare ogni forma di attività non controllabile, che consiste nel divieto di accedere a locali o eventi pubblici o a manifestazioni sportive per un determinato periodo, anni solitamente. Questo decreto allarga l’azione del daspo anche a coloro che hanno riportato, negli ultimi 3 anni, denunce o condanne non definitive per questioni di spaccio effettuato in prossimità di punti “sensibili”, scuole, università o locali pubblici aperti al pubblico, praticamente ovunque. Una presunta pericolosità che può così essere definita arbitrariamente dalla questura o dalla prefettura di turno, elemento a nostro avviso direttamente collegabile all’impalcatura del codice Rocco approvato in piena epoca fascista e della strategia della prevenzione del dissenso, alla faccia del principio di innocenza fino a condanna definitiva.

E in attesa che l’Italia adotti una legislazione sulla tortura e sull’identificazione delle forze dell’ordine, oggi troppo spesso impunite per i loro innumerevoli soprusi, vengono inasprite le pene per coloro che risultano coinvolti in risse prevedendo che, nei casi di morte o lesioni personali, il solo fatto della partecipazione alla medesima risulti punibile con la reclusione da 6 mesi a 6 anni.

Nemmeno questa crisi ha portato ad una cancellazione del piano nazionale sgomberi o del reato di invasione di edifici ennesima riprova di quanto la povertà a loro faccia schifo; stessa cosa per il reato di blocco stradale, balzato alle cronache perché immediatamente applicato per le proteste dei pastori sardi e degli operatori della logistica, a significare da un lato che quel tipo di protesta fa davvero male a chi la subisce, forti sono i contraccolpi economici soprattutto delle aziende del comparto logistica sempre più attive in questo mondo sempre più tecnologico e orientato agli acquisti sulle piattaforme di e-commerce e dall’altro rende evidente il tentativo di riportare, attraverso questa spada di Damocle fatta di anni di galera e sanzioni pesantissime, sotto il controllo dei partiti o dei sindacati padronali quelle proteste spontanee.

E se nemmeno il daspo urbano, le multe e le varie forme di controllo preventivo riescono a fermare il dissenso ci penseranno i taser, la cui sperimentazione pare non avere un limite essendo estesa alla polizia locale delle città con più di 100mila abitanti. Una sperimentazione, neologismo che indica la quotidiana goccia di stricnina, attivata in poche città e che sarà destinata a essere strutturale nel distopico futuro, e forse presente, che pare profilarsi all’orizzonte.

Distratti dal tema migranti, stiamo assistendo ad un continuo assalto con armi convenzionali e non alla povertà, alle nostre libertà e al dissenso, l’ennesimo smacco di questa classe politica che ha completamente svenduto tutti i valori, tra cui l’umanità e la dignità.

Per questi sinceri democratici la sicurezza è fatta di polizia, impunità, controlli preventivi, repressione e taser e la nostra?

La nostra è fatta di libertà e per essere liberi è necessario dissentire e disobbedire.

Valsabbin* Refrattar*

 

 

Il tricolore dell’ipocrisia

giovedì, Dicembre 24th, 2020

In questo periodo di isteria collettiva nel vuoto delle nostre case stiamo assistendo, alla finestra non potendo uscire o peggio attaccati alla televisione, alla divisione dell’Italia in tre aree, a seconda dell’incisività di questa ondata pandemica.

A definire i criteri di questa ripartizione c’è un super logaritmo che raccoglie, analizza ed elabora molti dati tra cui i contagi, decessi, tamponi e posti letto occupati nelle terapie intensive.

Il potere decisionale demandato ad una tecnologia che chiaramente se da un lato rende fattuali le decisioni perché collegate e conseguenti a dei dati inconfutabili, che non possono in alcun modo essere messi in discussione, dall’altro rende evidente la precarietà su cui basa i fondamenti della raccolta delle informazioni, plasmati sulle necessità del momento.

Il quadro che ne esce è impietoso e allarmante, in questa conclamata sudditanza alla tecnologia e alle sue applicazioni la classe politica ha così l’alibi per prendere le decisioni più dure senza esserne direttamente responsabile e può così gettare la maschera per sperimentare in questa società le politiche securitarie e repressive verificandone le reazioni e constatando la lente e incessante assuefazione ad esse. Perché il loro desiderio è quello di sempre, avere una massa di schiavi obbedienti sopra cui prosperare.

E per facilitare la fruizione dei risultati di queste iper tecnologie e dei metadati correlati difficilissimi da comprendere e accettare, soprattutto per i sintomatici del dubbio, tra le varie modalità di comunicazioni hanno utilizzato quella non verbale, visiva nello specifico e per indicarci la terapia da seguire nelle nostre quotidianità hanno colorato la penisola con tre colori, il giallo, l’arancione e il rosso. Colori caldi che l’istinto animale che in noi ancora è presente ci ricorda essere collegati all’allerta e ai pericoli, non solo per il virus ma anche per questa nuova strategia della tensione.

Ed è da questa tavolozza tricromatica che vengono presi i colori per pennellare con dei decreti la nostra vita e le nostre libertà

Molti sono i paralleli tra questi colori e il loro significato atavico o collegato al periodo virulento, dal rosso colore del sangue all’arancione che brilla sulle divise degli operatori sanitari o sulle pettorine delle forze dell’ordine sempre più massicciamente per le strade, ma è sul giallo che si vuole proporre una riflessione.

Giallo, il colore dell’oro simbolo della ricchezza o della vergogna ma anche delle stelle che gli ebrei furono obbligati a portare cucite sul petto a causa delle leggi razziali. Le stesse che oggi molti politici e non solo vorrebbero applicare ai non vaccinati o ai presunti negazionisti, figura pseudo mitologica su cui si concentra la tensione della ricerca di un fantomatico utile idiota da esporre al pubblico ludibrio e da additare come untore. Indicare di negazionismo chi si pone degli interrogativi sulla gestione e propone una lettura diversa dei fatti e delle responsabilità sarà il nuovo simbolo del nemico che dovrà essere immediatamente riconoscibile con l’identico atteggiamento di pochi decenni fa, modus che non possiamo dimenticare o relegare al passato e che in questo presente non vogliamo ritorni.

E così la nostra vita, i nostri rapporti umani, famigliari o amicali, all’ora precisa dal lampeggiare del nuovo colore, sono soggetti alle disposizione della nuova tinta di turno e che sia gialla, arancione o rossa poco cambia, la direzione auspicata va verso l’acromatico nero del coprifuoco, dove si sa non esserci né colori né ombre.

E per completare questo arcobaleno ci viene chiesto di appendere l’italico tricolore ai nostri balconi, servirà per sconfiggere il virus, mostrare la nostra straordinaria umanità e rinsaldare la nostra identità nazionale.

D’altronde ce lo chiedono in tanti, anche chi nemmeno troppi anni fa lo utilizzava per pulirsi il culo, figuriamoci se non lo possono usare per pulire qualcos’altro.

Tipo le loro coscienze dai morti e da queste ipocrisie…

Pernice Nera

Gabbie animali e umane

venerdì, Dicembre 18th, 2020

Con questo terzo articolo prosegue l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli animali da reddito e non e le regole a cui siamo soggetti.

Quando si parla di animali in gabbia si pensa immediatamente agli animali rinchiusi negli zoo o nei circhi, a quelli più o meno feroci catturati ed esposti al pubblico o a quelli stipati negli allevamenti intensivi; sono comunque tutti accomunati da una vita condotta all’interno di un sistema di costrizione fisica, di contenimento e immediato è il parallelo con l’analogo sistema umano, dove si vuole amministrata la giustizia per ordine dell’autorità competente, il carcere.

Lo scorso marzo, nelle prime fasi di questa pandemia, in numerose carceri sparse per tutto lo stivale, ci sono state delle rivolte spontanee causate dal panico da diffusione incontrollata e incontrollabile del virus. A Modena cinque reclusi sono morti durante la sommossa, quattro durante il trasferimento in altre carceri come Bologna e Terni e almeno altri quattro nelle settimane successive. Morti le cui cause non sono ancora certe, una strage di stato di proporzioni incredibili senza precedenti dal dopoguerra ad oggi.

Le rivolte sono immediatamente state indicate come etero dirette dalla mafia, da sovversivi o da fantomatiche forze occulte che tramano nell’ombra, chiaramente per gettare discredito sulle reali motivazioni del disagio che ha causato quel dissenso. La verità è che la gestione dell’emergenza se fuori è stata gestita col bastone della repressione, in carcere non è certo stata usata la carota, ma un bastone con ancora più nervo. Le condizione di sovraffollamento delle carceri italiane sono note da decenni e il timore riguardante la diffusione del covid in questi ambienti così precari è stata la scintilla che ha incendiato una polveriera colma, giunta all’esasperazione con la soppressione dei colloqui con i famigliari, uno dei pochi momenti di contatto con l’esterno e di socialità non controllata dei detenuti.

E se alle immagini delle rivolte sui giornali e tv è stato dato molto risalto, per questa strage solo in pochi ambienti se n’è sentito parlare, anzi solo in questi giorni a mesi di distanza, è stato depositato un esposto per far luce sui pestaggi e le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in quei giorni di marzo.

Parallelamente, lo scorso ottobre in trentino abbiamo assistito al corteo di protesta contro la detenzione, all’interno dell’area faunistica del Casteller nei pressi di Trento, degli orsi considerati troppo pericolosi per l’uomo e del danneggiamento fatto ad una delle recinzioni perimetrali. A questo analogo caso di costrizione forzata, che fortunatamente non ha causato vittime, è stato dato molto risalto.

E facendo un parallelo ci troviamo di fronte al paradosso che la cattura di un’orsa ha visto un corteo in trentino e un sabotaggio, azione ribadiamo assolutamente condivisibile, e la strage di Modena non ha visto una mobilitazione così per certi versi incisiva.

Sia ben chiaro, l’intento di questo confronto non vuole in alcun modo togliere supporto e sostegno alla lotta, azione e mobilitazione del Casteller, ma porre un interrogativo riguardo al rischio di avere sensibilità diverse di fronte ad un analogo sistema costrittivo.

Perché se da un lato nel precedente articolo abbiamo visto come gli animali siano assolutamente spendibili (nel loro caso sopprimibili) in nome del rischio sanitario, con questo silenzio o peggio disinteresse non vorremmo che anche quegli uomini lo siano, essendo già privati, oltre che della libertà del diritto alla salute e alla vita e sia ben chiaro non vissuta dietro le sbarre o comunque lo siano come esperimento di un sistema da allargare poi a tutta la popolazione in qualche modo non produttiva.

E se, secondo le autorità, l’istinto animale non si può modificare e quindi il contenimento diviene indispensabile, sarebbe forse meglio non utilizzare per scopi economici o turistici la natura ma questo è un altro discorso, dall’altro il falso mito della riabilitazione, rende la detenzione in carcere il fine unico. Carcerazione fatta in condizioni di disagio e di distacco dagli affetti e precaria da molti punti di vista, non ultimo quello sanitario.

E questa umanità e questi animali sono legati da un triste destino, definito da Mario Trudu, ergastolano scrittore che di fronte alla certezza di concludere i suoi giorni in gabbia chiese di essere giustiziato giudicando questa fine più degna e ottenendo una risposta negativa, pena di morte in vita. Lucida analisi che ben caratterizza l’atteggiamento spietato, sadico e cinico di chi pensa, pianifica e realizza questi sistemi costrittivi.

Sistemi che occorre distruggere con la massima urgenza, qualsiasi essi siano, virus o non virus.

Pernice Nera

La Bàla nelle prealpi bresciane: una tradizione da preservare

domenica, Dicembre 13th, 2020

Giocatori di Bàla, luglio 1937

Nei racconti popolari degli anziani del piccolo paese di montagna dove viviamo, associata ai momenti di festa che rompevano le ordinarie fatiche giornaliere, ha spesso fatto capolino la descrizione di festose giornate dove giovani e meno giovani si cimentavano nel gioco qua nel bresciano denominato della Bàla.

Le origini di questo fenomeno ludico arrivano ben oltre la memoria dei più anziani e la sua pratica accomuna molti piccoli centri abitati dell’arco alpino e appenninico.

Aldilà del nome (che evidentemente varia a seconda dei dialetti), e di alcune piccole varianti nelle regole pratiche , l’essenza del gioco è la stessa. Senza entrare troppo nei particolari, trattasi di uno “sport” di squadra, praticato nelle piazze o nelle vie interne di paese, che potrebbe figuratamente essere accostato ad una sorta di tennis popolare giocato a mani nude. Il numero dei partecipanti per squadra varia da tre a quattro membri a seconda dell’ampiezza del campo da gioco. La palla tamburello e la palla elastica, attività ludiche che in Liguria hanno una certa popolarità, possono essere considerati parenti della bàla. L’Eskupilota , un gioco molto simile, è nei Paesi Baschi, notoriamente gelosi delle proprie tradizioni, attualmente praticatissimo e assurto a sport nazionale .

Anticamente la palla da gioco era autoprodotta con il cuoio ottenuto dalle pelli animali, e visto lo scomposto ciottolato che lastricava le vie ,si poteva colpire praticamente solo di volo.

Nel presente la bàla è praticata utilizzando palline da tennis previamente private del “pelo” e l’ asfalto sulle strade permette di colpirle più facilmente anche dopo il primo balzo.

Negli ultimi decenni alle nostre latitudini, al pari di molte altre attività che hanno caratterizzato la vita popolare negli abitati di montagna, anche la bàla si è trovata a rischio estinzione.

Le piazze di paese, un tempo indiscutibilmente considerate come res populi, sono oramai divenute in primis spazio controllato dall’istituzione, e in secundis prolungamento della proprietà privata.

Oramai quasi un quinquennio orsono, uno sparuto gruppo di amici ha deciso di provare a rilanciare la bàla nel nostro abitato. L’antico gioco, a causa anche di un forte calo demografico, era in disuso totale

da una quindicina d’anni. Lo “slogan” con cui abbiamo cercato di dare spinta al progetto è stato “La Bàla la mör mai!” (dialettizzando e trasponendo il “punk never dies!”). I risultati sono andati oltre ogni aspettativa, con grande affluenza anche da paesi vicini dove, per diatribe legali con proprietari di case che si affacciano sui campi da gioco e ordinanze comunali, vige la proibizione di praticarlo.

Durante la buona stagione nel fine settimana, e oltre, la bàla è diventata momento di appuntamento fisso . In queste occasioni il paesello, strappato dalla desolazione di una piazza vuota, rivive fra le imprecazioni e le urla di giubilo di chi si è ritrovato a condividere il tempo e gli spazi genuinamente. “La Bàla la mör mai!” oltre che un folto gruppo spontaneo, negli anni si è pure trasformata in una sorta di brand impresso su vari capi di abbigliamento e gadgets, il tutto senza fini commerciali ma con lo scopo di accrescere coesione e identità nel nostro circuito.

Dal 2017 inoltre viene organizzato un partecipatissimo torneo di due giorni con oltre 20 squadre, che si trasforma in una sorta di ibrido fra una T.A.Z. e una sagra di paese.

Fortunatamente da noi la soddisfazione di rivedere l’abitato con vita è quasi unanime anche fra chi a bàla non ci gioca, ma ne gode sedendosi a guardare, o passando oltre scambiando qualche battuta, senza doversi confrontare con la sideralità di un paese senza paesani.

Ritrovarsi spontaneamente nelle piazze e dare vita ad una auto organizzata aggregazione, libera da ogni logica di consumo, risulta evidentemente poco compatibile con le evoluzioni sociali degli ultimi tempi . Le radici del distanziamento sociale, che ora viene apertamente caldeggiato e imposto, hanno origini ben più lontane della così chiamata crisi pandemica; sono da ricercare nel terreno dello sviluppo iper tecnologico del capitalismo, e sono diventate endemiche con l’introduzione dei socials e degli smart phones.

Attività che creano tessuto sociale autogestito, rifiutando di essere omologate , registrate e autorizzate sono in palese contrasto con le necessità di controllo delle istituzioni.

Lo sono ancor più con i desiderata del libero mercato che trasformando anche le relazioni sociali in mercimonio, auspicabilmente virtuale, spera di generare una platea di acritici e passivi consumatori. Ne consegue che in breve tempo ci si è dovuti confrontare con i tutori dell’ordine. L’operato di costoro nel monitorare e reprimere la nostra passione è stato zelante fin da subito. Gli episodi in cui abbiamo ricevuto visite non gradite si sono ovviamente moltiplicati e inaspriti con il sopraggiungere del distanziamento sociale per decreto.

I metodi di contrasto messi in campo sono gli stessi che vengono utilizzati (facendo le debite proporzioni) con ogni movimento fuori controllo.

Da una parte la mano tesa, per un bonario riassorbimento nel quadro della legalità, con richieste di costituzione di federazioni sportive e in alcuni casi la costruzione da parte delle istituzioni di campi artificiali, detti sferisteri. Dall’altra il bastone, con multe e denunce per chi si ostina a giocare nelle piazze interdette.

Purtroppo l’edizione di quest’anno del torneo è stata fermata dai birri senza possibilità di replica. Se precedentemente vi erano state delle multe individuali per occupazione di suolo pubblico, alle quali si poteva far fronte senza grossi problemi, quest’anno gli oramai incontabili DPCM hanno dato ai repressori strumenti più affilati. Tutti i presenti “acciuffabili” sono stati registrati e alcuni di noi, già poco simpatici alle divise per altre questioni, non troppo velatamente minacciati. Bonariamente ci hanno lasciato 10 minuti di tempo per rompere l’assembramento prima di procedere all’accertamento di fatti di “gravissima rilevanza penale” (cit.).

Ovviamente la criminalizzazione di un fenomeno ludico appare ai più fatto quantomeno grottesco, spingendo pure gli spiriti meno bollenti a fare qualche pensierino ribelle…….il che non è male.

Resta sentire condiviso fra i praticanti che l’ essenza stessa della bàla sia nelle piazze, e i campi artificiali edificati restano pressoché deserti (per intenderci il rapporto piazza/sferisterio per un giocatore di bàla può essere trasposto in neve fresca/neve artificiale per uno sciatore).

Un altro aspetto che riteniamo importante in questo nostro percorso è quello di far sentire una voce e uno spirito diversi nella difesa di una tradizione alpina. Ovviamente vi è notevole eterogeneità nelle sensibilità di chi si ritrova nelle piazze, ma l’aver portato il contributo di un approccio libertario, ha scalfito il monopolio di chi certe bandiere le fa proprie per trasformarle in meri cavalli di battaglia, al fine di ottenere gradimento politico e potere.

La volontà di andare avanti è forte e condivisa , non sarà facile arrestarla. Durante questi mesi invernali si discute già di come continuare a riempire le nostre piazze e alimentare il fuoco di questa passione.

Avanti così e la bàla la mör mìa.. quantomeno non prima di noi.

Come visoni in gabbia

domenica, Dicembre 6th, 2020

Prosegue con questo secondo articolo l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli allevamenti intensivi e le nuove regole a cui siamo soggetti.

A prima vista può apparire un confronto improprio ma se approfondiamo e analizziamo stiamo assistendo ad un perfetto allineamento delle due gestioni, che va dalle profilassi antibiotiche e vaccinali ormai strutturali e pianificate fin dai primi giorni di vita ai criteri di spendibilità e efficienza applicati a tutti gli strati sociali e che ci fanno rendere conto di come con la scusa del virus sia in corso una feroce stretta autoritaria.

La notizia che ci ha dato lo spunto per ampliare la riflessione riguarda l’abbattimento di centinaia di migliaia di visoni in Danimarca perché infetti da un nuovo ceppo del virus potenzialmente pericoloso per l’uomo. Questi animali da pelliccia sono stati abbattuti e sotterrati alla bell’e meglio in grandi fosse comuni. Stessa sorte è toccata anche ai 30000 capi di un allevamento italiano che in fretta e furia e nel silenzio generale, per ordine del ministro della sanità, sono stati eliminati. Premettendo che non crediamo sia solo il momento della morte l’elemento di una vita condotta in modo indegno, l’esistenza in gabbia è un abominio, vogliamo porre il focus sulla spendibilità di quelle vite paragonandole alle nostre.

Fortunatamente i limiti morali delle nostre società impediscono di farci fare la fine dei visoni, ma non la stessa vita in gabbia. L’isolamento sempre più massiccio a cui siamo sottoposti e sempre più pianificato da questa legislazione d’emergenza, dalla didattica a distanza alle limitazioni al movimento, al tele lavoro è dettato da esigenze meramente repressive.

Le sole attività concesse, considerate essenziali per decreto, sono quelle finalizzate alla produzione e al profitto. Non è un caso che i centri commerciali siano aperti totalmente o con pochissime restrizioni e i musei siano ancora chiusi. Musei che tra tutte le attività ricreative e culturali, per la tutela delle opere raccolte, sono già organizzati per contingentare gli ingressi. E non citiamo la scuola, altro luogo dove la socialità, l’interscambio e la critica anche ai metodi e ai contenuti dell’insegnamento creano le basi per la nascita di coscienze e teste pensanti, quindi di un sano dissenso.

Questi dpcm ci negano gli spazi e i momenti di socialità, le occasioni di confronto, quelli che definiscono assembramenti ma che in realtà sono spazi fondamentali del nostro essere animali sociali.

E correndo su questa ruota da criceti, continuamente sfruttati, non possiamo che avere le stesse reazioni istintive degli animali sottoposti alle stesse privazioni. Ai maiali nei primi giorni di vita vengono limati i canini per contenere la reazione più istintiva e naturale di una vita condotta oltre ogni stress immaginabile, il cannibalismo per difendere il loro metro quadrato di libertà e non potendosi neppure sfogare così sono soggetti a autolesionismo o a comportamenti assurdi, ossessivo compulsivi in attesa della morte.

Così ci possiamo scannare tra di noi additando come nemico e untore il vicino, il podista o chi sceglie liberamente e responsabilmente di opporsi a queste ordinanze, incoraggiati e protetti dalla politica che prospera nel vederci divisi e consapevole, vara in continuazione leggi poco chiare fatte ad hoc per questo scopo.

Leggi assolutamente non controllabili che alimentano una cultura del sospetto e una lacerazione sociale che da un lato potrebbero essere il cavallo di troia per l’instaurazione di uno stato di polizia, perché si renderà necessaria quella presenza massiccia per verificare che tutto sia a norma, e dall’altro portano sicuramente divisione nella popolazione che, già straniata dal periodo virulento, si accanisce sugli obbiettivi più deboli, facili o vicini, distogliendo completamente l’attenzione da chi con le proprie omissioni ha portato all’impossibilità di contenere questo virus. Ossia dalla classe politica predatoria che necessita delle nostre divisioni, del nostro autolesionismo o cannibalismo, per prosperare e che, troppo spesso, è lo specchio perfetto di questa società

Se per i visoni in gabbia non c’è stato nulla da fare avere coscienza che quella potrebbe essere la stessa fine, ci aiuterebbe a capire come il loro destino e le logiche che governando le loro esistenze sono le stesse ci che stanno imponendo.

Smontare le gabbie animali è un primo passo per riconoscere le gabbie in cui ci vogliono rinchiusi e una delle soluzioni per tornare a respirare liberi fuori dal metro quadrato di libertà che ci hanno concesso.

Pernice Nera

Il salto di specie

mercoledì, Dicembre 2nd, 2020

L’analisi del periodo pandemico che abbiamo svolto finora si è concentrata sulla situazione attuale e ha cercato di smascherare le ipocrisie dietro al discorso della responsabilità individuale o collettiva nella diffusione del virus, dietro gli slogan di regime o la neo lingua bellica adottata in tempo di pace pandemica. Abbiamo pensato con questo scritto di approfondire anche alcune delle cause che sono collegate alla proliferazione del virus e la prima a cui abbiamo pensato, forse la più evidente, è quella collegata con l’inquinamento a cui siamo quotidianamente soggetti.

E nello specifico non quello delle attività produttive, che nel bresciano è arcinoto, dal caso Caffaro alla concentrazione studiata nel mondo delle realtà industriali e artigianali o alle discariche che spuntano qua e là come funghi, ma a quello collegato all’allevamento intensivo.

La comparsa ciclica delle zoonosi, ossia di quelle malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo, è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni e una delle cause più conclamate è collegata con l’espansione degli allevamenti in aree ancora non antropizzate.

Che queste siano nella foresta amazzonica o nel cuore della Cina poco cambia, questa colonizzazione, con porcilaie a 6 piani o migliaia di ettari deforestati per la semina della soia o per il pascolo semi brado degli zebù, ha da un lato sottratto l’habitat agli animali autoctoni e dall’altro creato una pericolosa promiscuità tra specie che mai naturalmente si sarebbero incontrate. La stessa che spesso si trova sui banchi dei macellai.

Le condizioni di stress a cui questi animali sono soggetti sono simili perché in entrambe i casi sono costretti a vivere in aree troppo densamente popolate, e questo aspetto li rende molto più fragili e quindi più soggetti ad ammalarsi o ad essere vettori di malattie.

E se per gli animali selvatici la loro morte fattuale o la loro maggiore vulnerabilità da anni viene denunciata dai loro studiosi, per gli animali da reddito queste vengono fatte passare come uno scotto del progresso ma che non ci deve preoccupare perché gli animali vivono placidi garantiti dalle norme sul benessere animale.

Queste due parole di cui tanto si riempiono la bocca i grandi produttori o trasformatori di carne o le associazioni di categoria degli allevatori, coprono un sistema finalizzato ad avere animali super produttivi e non certo sani, per quello ci sono i farmaci.

A supporto di tale considerazione pensate che una vacca frisona da latte, che in condizioni di vita normali può arrivare a 18 anni, in pianura padana ne vive 5 di media.

O che un maiale da ingrasso, che in Italia viene macellato intorno ai 160 Kg, per il fantomatico benessere animale può tranquillamente trascorrere tutta la sua vita in 1m² di superficie, o un pollo in gabbia che può terminare il suo ciclo in poco più di un mese vivendo in uno spazio grande come un foglio a4 e mezzo (650-750 cm²). E in queste zone rosse l’uso di antibiotici è sistematico, sia per prevenire il diffondersi delle patologie sia perché, ed è un aspetto non ancora capito, questi hanno funzione auxinica, ossia stimolano la crescita. Tra le conseguenze di questa follia (per ovvie questioni in questo articolo non entriamo nel merito della violenza di questo sistema) nell’uomo constatiamo l’insorgere di forme di resistenza agli antibiotici che vanifica l’efficacia di molte cure in caso di malattia; l’importante è che un pollo diventi pollo in 40 giorni.

Ed è un tema che ci tocca molto da vicino, per molte ragioni anche perché queste realtà non sono solo distanti migliaia di chilometri da noi, sono comuni nella pianura bresciana.

Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente, consumo di carne e uso di medicinali sono argomenti correlati con la diffusione del virus.

Per sostenere un sistema produttivo e di sviluppo in stato di malattia terminale, stanno cercando di proporre le dinamiche tipiche degli allevamenti intensivi anche all’uomo. Igienizzazioni forzate, isolamento dei malati o presunti tali e campagne medicali a tappeto.

O si cambia il sistema di allevamento-vita o saremo ciclicamente coinvolti in queste pandemie perché non è con un vaccino, che mette una pezza alle conseguenze, che si può pensare di risolvere il problema, ma è solo agendo sulle cause.

E lo possiamo fare in molti modi. Mettendo in discussione questa idea di sviluppo che ci vede come visoni in gabbia pronti a essere sacrificati per il profitto e che ci porta alla logica conclusione che la spesa è meglio farla nell’orto, non in farmacia.

Sta a noi scegliere.

Pernice Nera