Gabbie animali e umane

Dicembre 18th, 2020 by currac

Con questo terzo articolo prosegue l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli animali da reddito e non e le regole a cui siamo soggetti.

Quando si parla di animali in gabbia si pensa immediatamente agli animali rinchiusi negli zoo o nei circhi, a quelli più o meno feroci catturati ed esposti al pubblico o a quelli stipati negli allevamenti intensivi; sono comunque tutti accomunati da una vita condotta all’interno di un sistema di costrizione fisica, di contenimento e immediato è il parallelo con l’analogo sistema umano, dove si vuole amministrata la giustizia per ordine dell’autorità competente, il carcere.

Lo scorso marzo, nelle prime fasi di questa pandemia, in numerose carceri sparse per tutto lo stivale, ci sono state delle rivolte spontanee causate dal panico da diffusione incontrollata e incontrollabile del virus. A Modena cinque reclusi sono morti durante la sommossa, quattro durante il trasferimento in altre carceri come Bologna e Terni e almeno altri quattro nelle settimane successive. Morti le cui cause non sono ancora certe, una strage di stato di proporzioni incredibili senza precedenti dal dopoguerra ad oggi.

Le rivolte sono immediatamente state indicate come etero dirette dalla mafia, da sovversivi o da fantomatiche forze occulte che tramano nell’ombra, chiaramente per gettare discredito sulle reali motivazioni del disagio che ha causato quel dissenso. La verità è che la gestione dell’emergenza se fuori è stata gestita col bastone della repressione, in carcere non è certo stata usata la carota, ma un bastone con ancora più nervo. Le condizione di sovraffollamento delle carceri italiane sono note da decenni e il timore riguardante la diffusione del covid in questi ambienti così precari è stata la scintilla che ha incendiato una polveriera colma, giunta all’esasperazione con la soppressione dei colloqui con i famigliari, uno dei pochi momenti di contatto con l’esterno e di socialità non controllata dei detenuti.

E se alle immagini delle rivolte sui giornali e tv è stato dato molto risalto, per questa strage solo in pochi ambienti se n’è sentito parlare, anzi solo in questi giorni a mesi di distanza, è stato depositato un esposto per far luce sui pestaggi e le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in quei giorni di marzo.

Parallelamente, lo scorso ottobre in trentino abbiamo assistito al corteo di protesta contro la detenzione, all’interno dell’area faunistica del Casteller nei pressi di Trento, degli orsi considerati troppo pericolosi per l’uomo e del danneggiamento fatto ad una delle recinzioni perimetrali. A questo analogo caso di costrizione forzata, che fortunatamente non ha causato vittime, è stato dato molto risalto.

E facendo un parallelo ci troviamo di fronte al paradosso che la cattura di un’orsa ha visto un corteo in trentino e un sabotaggio, azione ribadiamo assolutamente condivisibile, e la strage di Modena non ha visto una mobilitazione così per certi versi incisiva.

Sia ben chiaro, l’intento di questo confronto non vuole in alcun modo togliere supporto e sostegno alla lotta, azione e mobilitazione del Casteller, ma porre un interrogativo riguardo al rischio di avere sensibilità diverse di fronte ad un analogo sistema costrittivo.

Perché se da un lato nel precedente articolo abbiamo visto come gli animali siano assolutamente spendibili (nel loro caso sopprimibili) in nome del rischio sanitario, con questo silenzio o peggio disinteresse non vorremmo che anche quegli uomini lo siano, essendo già privati, oltre che della libertà del diritto alla salute e alla vita e sia ben chiaro non vissuta dietro le sbarre o comunque lo siano come esperimento di un sistema da allargare poi a tutta la popolazione in qualche modo non produttiva.

E se, secondo le autorità, l’istinto animale non si può modificare e quindi il contenimento diviene indispensabile, sarebbe forse meglio non utilizzare per scopi economici o turistici la natura ma questo è un altro discorso, dall’altro il falso mito della riabilitazione, rende la detenzione in carcere il fine unico. Carcerazione fatta in condizioni di disagio e di distacco dagli affetti e precaria da molti punti di vista, non ultimo quello sanitario.

E questa umanità e questi animali sono legati da un triste destino, definito da Mario Trudu, ergastolano scrittore che di fronte alla certezza di concludere i suoi giorni in gabbia chiese di essere giustiziato giudicando questa fine più degna e ottenendo una risposta negativa, pena di morte in vita. Lucida analisi che ben caratterizza l’atteggiamento spietato, sadico e cinico di chi pensa, pianifica e realizza questi sistemi costrittivi.

Sistemi che occorre distruggere con la massima urgenza, qualsiasi essi siano, virus o non virus.

Pernice Nera

La Bàla nelle prealpi bresciane: una tradizione da preservare

Dicembre 13th, 2020 by currac

Giocatori di Bàla, luglio 1937

Nei racconti popolari degli anziani del piccolo paese di montagna dove viviamo, associata ai momenti di festa che rompevano le ordinarie fatiche giornaliere, ha spesso fatto capolino la descrizione di festose giornate dove giovani e meno giovani si cimentavano nel gioco qua nel bresciano denominato della Bàla.

Le origini di questo fenomeno ludico arrivano ben oltre la memoria dei più anziani e la sua pratica accomuna molti piccoli centri abitati dell’arco alpino e appenninico.

Aldilà del nome (che evidentemente varia a seconda dei dialetti), e di alcune piccole varianti nelle regole pratiche , l’essenza del gioco è la stessa. Senza entrare troppo nei particolari, trattasi di uno “sport” di squadra, praticato nelle piazze o nelle vie interne di paese, che potrebbe figuratamente essere accostato ad una sorta di tennis popolare giocato a mani nude. Il numero dei partecipanti per squadra varia da tre a quattro membri a seconda dell’ampiezza del campo da gioco. La palla tamburello e la palla elastica, attività ludiche che in Liguria hanno una certa popolarità, possono essere considerati parenti della bàla. L’Eskupilota , un gioco molto simile, è nei Paesi Baschi, notoriamente gelosi delle proprie tradizioni, attualmente praticatissimo e assurto a sport nazionale .

Anticamente la palla da gioco era autoprodotta con il cuoio ottenuto dalle pelli animali, e visto lo scomposto ciottolato che lastricava le vie ,si poteva colpire praticamente solo di volo.

Nel presente la bàla è praticata utilizzando palline da tennis previamente private del “pelo” e l’ asfalto sulle strade permette di colpirle più facilmente anche dopo il primo balzo.

Negli ultimi decenni alle nostre latitudini, al pari di molte altre attività che hanno caratterizzato la vita popolare negli abitati di montagna, anche la bàla si è trovata a rischio estinzione.

Le piazze di paese, un tempo indiscutibilmente considerate come res populi, sono oramai divenute in primis spazio controllato dall’istituzione, e in secundis prolungamento della proprietà privata.

Oramai quasi un quinquennio orsono, uno sparuto gruppo di amici ha deciso di provare a rilanciare la bàla nel nostro abitato. L’antico gioco, a causa anche di un forte calo demografico, era in disuso totale

da una quindicina d’anni. Lo “slogan” con cui abbiamo cercato di dare spinta al progetto è stato “La Bàla la mör mai!” (dialettizzando e trasponendo il “punk never dies!”). I risultati sono andati oltre ogni aspettativa, con grande affluenza anche da paesi vicini dove, per diatribe legali con proprietari di case che si affacciano sui campi da gioco e ordinanze comunali, vige la proibizione di praticarlo.

Durante la buona stagione nel fine settimana, e oltre, la bàla è diventata momento di appuntamento fisso . In queste occasioni il paesello, strappato dalla desolazione di una piazza vuota, rivive fra le imprecazioni e le urla di giubilo di chi si è ritrovato a condividere il tempo e gli spazi genuinamente. “La Bàla la mör mai!” oltre che un folto gruppo spontaneo, negli anni si è pure trasformata in una sorta di brand impresso su vari capi di abbigliamento e gadgets, il tutto senza fini commerciali ma con lo scopo di accrescere coesione e identità nel nostro circuito.

Dal 2017 inoltre viene organizzato un partecipatissimo torneo di due giorni con oltre 20 squadre, che si trasforma in una sorta di ibrido fra una T.A.Z. e una sagra di paese.

Fortunatamente da noi la soddisfazione di rivedere l’abitato con vita è quasi unanime anche fra chi a bàla non ci gioca, ma ne gode sedendosi a guardare, o passando oltre scambiando qualche battuta, senza doversi confrontare con la sideralità di un paese senza paesani.

Ritrovarsi spontaneamente nelle piazze e dare vita ad una auto organizzata aggregazione, libera da ogni logica di consumo, risulta evidentemente poco compatibile con le evoluzioni sociali degli ultimi tempi . Le radici del distanziamento sociale, che ora viene apertamente caldeggiato e imposto, hanno origini ben più lontane della così chiamata crisi pandemica; sono da ricercare nel terreno dello sviluppo iper tecnologico del capitalismo, e sono diventate endemiche con l’introduzione dei socials e degli smart phones.

Attività che creano tessuto sociale autogestito, rifiutando di essere omologate , registrate e autorizzate sono in palese contrasto con le necessità di controllo delle istituzioni.

Lo sono ancor più con i desiderata del libero mercato che trasformando anche le relazioni sociali in mercimonio, auspicabilmente virtuale, spera di generare una platea di acritici e passivi consumatori. Ne consegue che in breve tempo ci si è dovuti confrontare con i tutori dell’ordine. L’operato di costoro nel monitorare e reprimere la nostra passione è stato zelante fin da subito. Gli episodi in cui abbiamo ricevuto visite non gradite si sono ovviamente moltiplicati e inaspriti con il sopraggiungere del distanziamento sociale per decreto.

I metodi di contrasto messi in campo sono gli stessi che vengono utilizzati (facendo le debite proporzioni) con ogni movimento fuori controllo.

Da una parte la mano tesa, per un bonario riassorbimento nel quadro della legalità, con richieste di costituzione di federazioni sportive e in alcuni casi la costruzione da parte delle istituzioni di campi artificiali, detti sferisteri. Dall’altra il bastone, con multe e denunce per chi si ostina a giocare nelle piazze interdette.

Purtroppo l’edizione di quest’anno del torneo è stata fermata dai birri senza possibilità di replica. Se precedentemente vi erano state delle multe individuali per occupazione di suolo pubblico, alle quali si poteva far fronte senza grossi problemi, quest’anno gli oramai incontabili DPCM hanno dato ai repressori strumenti più affilati. Tutti i presenti “acciuffabili” sono stati registrati e alcuni di noi, già poco simpatici alle divise per altre questioni, non troppo velatamente minacciati. Bonariamente ci hanno lasciato 10 minuti di tempo per rompere l’assembramento prima di procedere all’accertamento di fatti di “gravissima rilevanza penale” (cit.).

Ovviamente la criminalizzazione di un fenomeno ludico appare ai più fatto quantomeno grottesco, spingendo pure gli spiriti meno bollenti a fare qualche pensierino ribelle…….il che non è male.

Resta sentire condiviso fra i praticanti che l’ essenza stessa della bàla sia nelle piazze, e i campi artificiali edificati restano pressoché deserti (per intenderci il rapporto piazza/sferisterio per un giocatore di bàla può essere trasposto in neve fresca/neve artificiale per uno sciatore).

Un altro aspetto che riteniamo importante in questo nostro percorso è quello di far sentire una voce e uno spirito diversi nella difesa di una tradizione alpina. Ovviamente vi è notevole eterogeneità nelle sensibilità di chi si ritrova nelle piazze, ma l’aver portato il contributo di un approccio libertario, ha scalfito il monopolio di chi certe bandiere le fa proprie per trasformarle in meri cavalli di battaglia, al fine di ottenere gradimento politico e potere.

La volontà di andare avanti è forte e condivisa , non sarà facile arrestarla. Durante questi mesi invernali si discute già di come continuare a riempire le nostre piazze e alimentare il fuoco di questa passione.

Avanti così e la bàla la mör mìa.. quantomeno non prima di noi.

Come visoni in gabbia

Dicembre 6th, 2020 by currac

Prosegue con questo secondo articolo l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli allevamenti intensivi e le nuove regole a cui siamo soggetti.

A prima vista può apparire un confronto improprio ma se approfondiamo e analizziamo stiamo assistendo ad un perfetto allineamento delle due gestioni, che va dalle profilassi antibiotiche e vaccinali ormai strutturali e pianificate fin dai primi giorni di vita ai criteri di spendibilità e efficienza applicati a tutti gli strati sociali e che ci fanno rendere conto di come con la scusa del virus sia in corso una feroce stretta autoritaria.

La notizia che ci ha dato lo spunto per ampliare la riflessione riguarda l’abbattimento di centinaia di migliaia di visoni in Danimarca perché infetti da un nuovo ceppo del virus potenzialmente pericoloso per l’uomo. Questi animali da pelliccia sono stati abbattuti e sotterrati alla bell’e meglio in grandi fosse comuni. Stessa sorte è toccata anche ai 30000 capi di un allevamento italiano che in fretta e furia e nel silenzio generale, per ordine del ministro della sanità, sono stati eliminati. Premettendo che non crediamo sia solo il momento della morte l’elemento di una vita condotta in modo indegno, l’esistenza in gabbia è un abominio, vogliamo porre il focus sulla spendibilità di quelle vite paragonandole alle nostre.

Fortunatamente i limiti morali delle nostre società impediscono di farci fare la fine dei visoni, ma non la stessa vita in gabbia. L’isolamento sempre più massiccio a cui siamo sottoposti e sempre più pianificato da questa legislazione d’emergenza, dalla didattica a distanza alle limitazioni al movimento, al tele lavoro è dettato da esigenze meramente repressive.

Le sole attività concesse, considerate essenziali per decreto, sono quelle finalizzate alla produzione e al profitto. Non è un caso che i centri commerciali siano aperti totalmente o con pochissime restrizioni e i musei siano ancora chiusi. Musei che tra tutte le attività ricreative e culturali, per la tutela delle opere raccolte, sono già organizzati per contingentare gli ingressi. E non citiamo la scuola, altro luogo dove la socialità, l’interscambio e la critica anche ai metodi e ai contenuti dell’insegnamento creano le basi per la nascita di coscienze e teste pensanti, quindi di un sano dissenso.

Questi dpcm ci negano gli spazi e i momenti di socialità, le occasioni di confronto, quelli che definiscono assembramenti ma che in realtà sono spazi fondamentali del nostro essere animali sociali.

E correndo su questa ruota da criceti, continuamente sfruttati, non possiamo che avere le stesse reazioni istintive degli animali sottoposti alle stesse privazioni. Ai maiali nei primi giorni di vita vengono limati i canini per contenere la reazione più istintiva e naturale di una vita condotta oltre ogni stress immaginabile, il cannibalismo per difendere il loro metro quadrato di libertà e non potendosi neppure sfogare così sono soggetti a autolesionismo o a comportamenti assurdi, ossessivo compulsivi in attesa della morte.

Così ci possiamo scannare tra di noi additando come nemico e untore il vicino, il podista o chi sceglie liberamente e responsabilmente di opporsi a queste ordinanze, incoraggiati e protetti dalla politica che prospera nel vederci divisi e consapevole, vara in continuazione leggi poco chiare fatte ad hoc per questo scopo.

Leggi assolutamente non controllabili che alimentano una cultura del sospetto e una lacerazione sociale che da un lato potrebbero essere il cavallo di troia per l’instaurazione di uno stato di polizia, perché si renderà necessaria quella presenza massiccia per verificare che tutto sia a norma, e dall’altro portano sicuramente divisione nella popolazione che, già straniata dal periodo virulento, si accanisce sugli obbiettivi più deboli, facili o vicini, distogliendo completamente l’attenzione da chi con le proprie omissioni ha portato all’impossibilità di contenere questo virus. Ossia dalla classe politica predatoria che necessita delle nostre divisioni, del nostro autolesionismo o cannibalismo, per prosperare e che, troppo spesso, è lo specchio perfetto di questa società

Se per i visoni in gabbia non c’è stato nulla da fare avere coscienza che quella potrebbe essere la stessa fine, ci aiuterebbe a capire come il loro destino e le logiche che governando le loro esistenze sono le stesse ci che stanno imponendo.

Smontare le gabbie animali è un primo passo per riconoscere le gabbie in cui ci vogliono rinchiusi e una delle soluzioni per tornare a respirare liberi fuori dal metro quadrato di libertà che ci hanno concesso.

Pernice Nera

Il salto di specie

Dicembre 2nd, 2020 by currac

L’analisi del periodo pandemico che abbiamo svolto finora si è concentrata sulla situazione attuale e ha cercato di smascherare le ipocrisie dietro al discorso della responsabilità individuale o collettiva nella diffusione del virus, dietro gli slogan di regime o la neo lingua bellica adottata in tempo di pace pandemica. Abbiamo pensato con questo scritto di approfondire anche alcune delle cause che sono collegate alla proliferazione del virus e la prima a cui abbiamo pensato, forse la più evidente, è quella collegata con l’inquinamento a cui siamo quotidianamente soggetti.

E nello specifico non quello delle attività produttive, che nel bresciano è arcinoto, dal caso Caffaro alla concentrazione studiata nel mondo delle realtà industriali e artigianali o alle discariche che spuntano qua e là come funghi, ma a quello collegato all’allevamento intensivo.

La comparsa ciclica delle zoonosi, ossia di quelle malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo, è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni e una delle cause più conclamate è collegata con l’espansione degli allevamenti in aree ancora non antropizzate.

Che queste siano nella foresta amazzonica o nel cuore della Cina poco cambia, questa colonizzazione, con porcilaie a 6 piani o migliaia di ettari deforestati per la semina della soia o per il pascolo semi brado degli zebù, ha da un lato sottratto l’habitat agli animali autoctoni e dall’altro creato una pericolosa promiscuità tra specie che mai naturalmente si sarebbero incontrate. La stessa che spesso si trova sui banchi dei macellai.

Le condizioni di stress a cui questi animali sono soggetti sono simili perché in entrambe i casi sono costretti a vivere in aree troppo densamente popolate, e questo aspetto li rende molto più fragili e quindi più soggetti ad ammalarsi o ad essere vettori di malattie.

E se per gli animali selvatici la loro morte fattuale o la loro maggiore vulnerabilità da anni viene denunciata dai loro studiosi, per gli animali da reddito queste vengono fatte passare come uno scotto del progresso ma che non ci deve preoccupare perché gli animali vivono placidi garantiti dalle norme sul benessere animale.

Queste due parole di cui tanto si riempiono la bocca i grandi produttori o trasformatori di carne o le associazioni di categoria degli allevatori, coprono un sistema finalizzato ad avere animali super produttivi e non certo sani, per quello ci sono i farmaci.

A supporto di tale considerazione pensate che una vacca frisona da latte, che in condizioni di vita normali può arrivare a 18 anni, in pianura padana ne vive 5 di media.

O che un maiale da ingrasso, che in Italia viene macellato intorno ai 160 Kg, per il fantomatico benessere animale può tranquillamente trascorrere tutta la sua vita in 1m² di superficie, o un pollo in gabbia che può terminare il suo ciclo in poco più di un mese vivendo in uno spazio grande come un foglio a4 e mezzo (650-750 cm²). E in queste zone rosse l’uso di antibiotici è sistematico, sia per prevenire il diffondersi delle patologie sia perché, ed è un aspetto non ancora capito, questi hanno funzione auxinica, ossia stimolano la crescita. Tra le conseguenze di questa follia (per ovvie questioni in questo articolo non entriamo nel merito della violenza di questo sistema) nell’uomo constatiamo l’insorgere di forme di resistenza agli antibiotici che vanifica l’efficacia di molte cure in caso di malattia; l’importante è che un pollo diventi pollo in 40 giorni.

Ed è un tema che ci tocca molto da vicino, per molte ragioni anche perché queste realtà non sono solo distanti migliaia di chilometri da noi, sono comuni nella pianura bresciana.

Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente, consumo di carne e uso di medicinali sono argomenti correlati con la diffusione del virus.

Per sostenere un sistema produttivo e di sviluppo in stato di malattia terminale, stanno cercando di proporre le dinamiche tipiche degli allevamenti intensivi anche all’uomo. Igienizzazioni forzate, isolamento dei malati o presunti tali e campagne medicali a tappeto.

O si cambia il sistema di allevamento-vita o saremo ciclicamente coinvolti in queste pandemie perché non è con un vaccino, che mette una pezza alle conseguenze, che si può pensare di risolvere il problema, ma è solo agendo sulle cause.

E lo possiamo fare in molti modi. Mettendo in discussione questa idea di sviluppo che ci vede come visoni in gabbia pronti a essere sacrificati per il profitto e che ci porta alla logica conclusione che la spesa è meglio farla nell’orto, non in farmacia.

Sta a noi scegliere.

Pernice Nera

 

Fuga dalla stanza 101

Novembre 25th, 2020 by currac

Si conclude con questo sesto articolo l’analisi del periodo virulento che stiamo attraversando. Il percorso si è strutturato in cinque articoli dove abbiamo cercato di smascherare le ipocrisie che stanno dietro alle politiche repressive, ai messaggi battenti e incessanti “dell’andrà tutto bene” e alle continue privazioni delle nostre libertà.

Abbiamo approfondito la situazione di due dei più comuni sistemi costrittivi legalizzati, la scuola e le case di riposo, abbiamo constatato come in nome del profitto possano essere serenamente sacrificate le nostre libertà e abbiamo messo in discussione la narrazione mainstream che incessantemente ci sta martellando sul tema responsabilità.

E dopo la necessaria valutazione del momento, impresa alla quale abbiamo cercato di dare un piccolo contributo, crediamo sia necessario trovare risposte concrete da mettere in atto e il primo passo l’abbiamo individuato nel rispedire al mittente, senza se e senza ma, la narrazione che ci vuole responsabili del contagio in quanto irresponsabili nella nostra quotidianità (sic che paradosso). La colpa è nostra solo nella misura in cui abbiamo continuamente delegato le scelte sul nostro futuro ad una classe politica tutta dedita al profitto e al malaffare.

Il passo successivo dovrà essere infatti orientare la tensione alla riappropriazione di una politica attiva dell’individuo, che non si limiti all’espressione di un vacuo voto ma che persegua impegno diretto e reale partecipazione; per esprimere dal basso una volontà popolare che non sia tale solo sulla carta.

Viene poi la solidarietà che ci porta a sostenere concretamente studenti e professori che hanno rifiutato la didattica a distanza e si sono trovati fuori dalle scuole a fare lezione, perché il mondo digitale, mentre cerca di sedurci con dispositivi sempre più “smart”, altro non fa che allargare la voragine di apatia che ci sta divorando. Crediamo non sia un caso che proprio la scuola, a dispetto di certi tessuti produttivi mai messi in discussione (si parla addirittura in questi giorni di riapertura degli impianti sciistici), sia stata la prima a fermarsi e non sia praticamente mai ripartita (eccezion fatta per asili e primarie dove la chiusura , vista l’età dei frequentanti, impedirebbe di fatto ai genitori di recarsi sui luoghi di produzione).

Inoltre l’autorità sa bene come i movimenti radicali e di critica al potere costituito siano spesso arrivati proprio dalla scuola e abbiano preso forza incrociando nel percorso le fasce popolari e lavoratrici.

La stessa solidarietà va portata attivamente a tutto il personale sanitario che si oppone alle logiche dell’azienda ospedaliera. Perché, ripetiamo, non può essere un modello basato sul lucro ad operare per la salute pubblica. Una solidarietà costante e reale, a salvaguardia delle loro stesse condizioni lavorative, ben altro rispetto agli strumentali moti di falsa empatia che gli sono stati in questi mesi riservati dallo stesso potere che, tra l’altro, quelle condizioni avvilisce da decenni.

E mentre assistiamo ad una spersonalizzazione totale e a un allontanamento dei rapporti umani e commerciali, in linea con la logica del distanziamento sociale, ci proponiamo di creare dei modelli diversi di consumo in alternativa all’ e-commerce e alla grande distribuzione. Soddisfare le nostre necessità di spesa in un circuito locale è un’efficace risposta per creare tessuto e relazioni che vadano al di la del mero rapporto pecuniario sostenendo così l’economia del territorio.

Per ridiscutere il rapporto che lega l’economia di territorio allo stato riteniamo legittimo utilizzare lo strumento della disobbedienza fiscale, in particolar modo per quelle attività alle quali sono stati richiesti onerosi adeguamenti per poter esercitare e che ora si vedono nuovamente private della possibilità di lavorare, in buona parte a causa dell’inadempienza dello stato alle sue stesse leggi.

Ma il tema fondamentale riguarda le nostre libertà: se ci si pensa un attimo, pure quelle che pensavamo fossero inalienabili sono state sospese in attesa dell’unica via d’uscita a questo periodo, il vaccino. Ed oggi che si profila all’orizzonte non possiamo non sottolineare come l’interpretazione materialista del: “ecco abbiamo il vaccino e ve lo vendiamo” non sia stata minimamente messa in discussione; è stata finora una gara al primo che arriva e che, riuscendo a depositare il brevetto, sul nostro corpo può fare maggior profitto ( in barba alla sbandierata retorica dello sforzo nazionale per il bene della salute pubblica).

Sulla nostra salute si sta combattendo una battaglia ben più grande di quella contro il virus, quella della nostra libertà.

Coraggio, unione e consapevolezza sono gli unici vaccini al virus che da anni ci sta affamando: l’egoismo del capitale. Un egoismo lacerante che neppure di fronte allo stato d’emergenza, alle privazioni e ai morti unisce e spinge alla collaborazione perché il profitto deve venire prima di tutto.

E’ tollerabile tutto ciò?

Ci congediamo con un estratto del libro che ha ispirato il nome collettivo e che è sempre un faro che ci guida nell’indagare sulle distopie del potere: “Finché non diverranno coscienti della loro forza, non si ribelleranno e, finché non si ribelleranno, non diverranno coscienti della loro forza.”

In alla fuga dalla stanza 101, Winston e Julia, Novembre 2020 o 1984?

Ma quale responsabilità?

Novembre 17th, 2020 by currac

Prosegue con questo quinto articolo l’analisi del periodo pandemico a firma Winston e Julia e con questo scritto ci vogliamo concentrare sul tema responsabilità, tanto caro alla narrazione dei principali media filo governativi.

L’abbiamo già parzialmente affrontato nei primi quattro articoli, dalla distruzione del sistema sanitario all’affermarsi di una nuova neolingua, ben rappresentata dall’ossimoro del distanziamento sociale, ma anche dell’indottrinamento scolastico e delle persone isolate nelle Rsa, la colpa o la responsabilità della diffusione del virus è sempre personale e ribaltata sulle scelte e azioni individuali.

Ci siamo resi conto di come non si faccia mai parola delle responsabilità politiche di chi ha amministrato e amministra il paese e le regioni.

Ma se scaviamo un po’e ci interroghiamo, è chiaro come questo disegno omissivo sia in perfetta continuità con le reazioni di inizio anno che già allora cercavano di spostare la responsabilità della diffusione del virus tutta sul tempo libero delle persone, dallo sport ai bar,sui luoghi di cultura e di socialità e di contro i luoghi produttivi sono sempre stati considerati sicuri; per decreto sia ben chiaro.

Nessuno finora ha chiesto conto delle responsabilità di Confindustria e delle pressioni fatte per tenere aperti i distretti produttivi bergamaschi e bresciani a marzo e aprile. Che conseguenze hanno avuto?

Nessuno chiede conto ai locali imprenditori che pur di garantirsi il profitto hanno sfruttato la possibilità di essere considerati tra le filiere indispensabili pur esercitando tutt’altra attività produttiva.

Non si chiede conto delle responsabilità politiche sia nella prima fase che di questa seconda; nessuno dice che tra gli obbiettivi per contenere la “seconda ondata” contenuti nel dpcm di marzo c’era raggiungere un rapporto del 14% di posti letto nelle terapie intensive e posti letto totali e solo 3 regioni hanno raggiunto l’obbiettivo; e ovviamente la Lombardia no, è al 9% scarso, 1000 posti sui 1500 circa previsti. E pochissimi mettono in evidenza dell’assenza di un piano pandemico aggiornato che avrebbe garantito strutture e stock di materiale sufficienti per affrontare con preparazione un’emergenza.

È evidente come nemmeno di fronte all’emergenza, presunta o reale, di fronte a delle scelte scriteriate siano purtroppo pochi che si stanno muovendo per chiedere conto della devastazione e saccheggio del sistema sanitario perpetrati negli ultimi anni e delle scelte che hanno portano all’impoverimento delle classi già più in difficoltà.

E chi lo fa individualmente o scendendo in piazza, oltre a essere pesantemente represso (ma non è una novità), viene additato come untore e come nemico dell’unità nazionale.

Quindi tutti stretti e uniti e protetti dal coprifuoco, tipico provvedimento adottato in tempi di guerra, evidenza di come la nostra esistenza debba essere vissuta fino alle 18.00, ossia fino all’orario di uscita dal luogo di lavoro e le attività culturali, ludiche e aggregative possono essere considerate superflue nelle nostre vite.

La maschera l’hanno gettata, in questi giorni l’abbiamo capito, il disegno è chiaro: o si è funzionali alla produzione o si sta a casa, ciò che manca lo si può acquistare sugli e-commerce. Il concetto è stato messo nero su bianco da Toti, presidente delle regione Liguria, che in un recente post ha definito gli anziani morti come: “non più utili allo sforzo produttivo del paese”. I settori improduttivi o se ne stanno a casa o possono morire. Aggiungiamo anche il commento del leghista Borghi che candidamente afferma che: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e quindi non sulla salute”.

Della nostra salute non importa nulla a questi vigliacchi che cercano con delle compensazioni e con le politiche di assistenzialismo, briciole rispetto alla torta, di distogliere l’attenzione dalle loro responsabilità perché mentre si soffre non possiamo dimenticarci le immagini dei comizi, delle feste e festini estivi di questa classe politica.

Ribaltare la responsabilità è un tema centrale oggi, la colpa non è di chi vuole vivere consapevole e libero ma di chi ci vuole schiavi in cattività, perché la crisi l’abbiamo già ampiamente pagata una volta come soggetti depredati della nostra salute ed ora la stiamo pagando con la nostra libertà grande alibi per coprire le responsabilità altrui.

Arrivederci al prossimo ed ultimo articolo delle serie che si propone con una certa presunzione di fornire alcune risposte, soluzioni, riflessioni, pratiche e spunti per il prossimo futuro.

Winston e Julia, Novembre 2020 o 1984?

Ma chi c’era?

Novembre 14th, 2020 by currac

Pochi giorni fa, esattamente il 4 novembre, anniversario dell’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti che mise fine al bagno di sangue della prima guerra mondiale, abbiamo potuto leggere la lettera destinata agli studenti delle Marche scritta di pugno da Marco Ugo Filisetti direttore generale dell’ufficio scolastico regionale. Il messaggio, riportato di seguito, vuole ricordare le vittime della Grande Guerra.

In questo giorno il reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la vita per la Patria, una gioventù che andò al fronte e la vi rimase. Una gioventù lontana dai prudenti, dai pavidi, coloro che scendono in strada a cose fatte per dire: “io c’ero”.

Giovani che vollero essere altro, non con le declamazioni, ma con le opere, con l’esempio consapevoli che Un uomo è vero uomo se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza’.

Combatterono per dare un senso alla vita, alla vita di tutti, comunque essi la pensino.

Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: presente!”

Difficile scrivere cose peggiori in 11 righe scarse, una macedonia patriottica che al di là dei toni nostalgici e del termine “presente!”, tanto caro alle destre, concentra falsità e letture storiche virulente. Ma chi c’era?

Quello che oggi sappiamo, che abbiamo letto e studiato e che abbiamo potuto apprendere dalle cronache di allora sfuggite alla censura, riporta delle devastanti condizioni di vita nelle trincee, dell’abitudine alla morte che spesso portò a episodi di autolesionismo, dei soprusi e delle decimazioni e dei giovani figli d’Italia, tanto cari alla patria, mandati al massacro senza il minimo rispetto per la loro vita.

Parla di carriere militari e politiche fatte sui cadaveri.

Parla delle diserzioni di massa dei contadini del sud che tornati a casa per dei periodi di licenza si resero irreperibili rifiutandosi di tornare al fronte e che furono ripresi dai carabinieri armi in mano.

Parla di un sistema brutale e verticistico, militarista, di licenze sospese per una serie infinita futili motivi e di un sistema sanzionatorio pervasivo; si stima, ma purtroppo il dato non è ancora certo e definitivo, che ci furono almeno 350mila processi, 170mila condanne e oltre 4mila a morte.

Sì, loro c’erano davvero.

Parla anche dei cosiddetti patrioti redenti, dei volontari trentini che combatterono volontari con il regio esercito italiano nel Battaglione Volontari Trentini; un grandioso contingente di 800 uomini tra l’altro mai distintosi in nulla. Altro che eroi della quarta guerra risorgimentale.

E la retorica, racchiusa nelle 11 righe scarse lette sopra, mira a cancellare nella memoria tutte queste violenze, privazioni, soprusi e forse verità, e lo fa per un presunto bene superiore: l’unità nazionale.

E non è un caso che l’anniversario del 4 novembre sia stato istituzionalizzato nella “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”, a dettare l’assoluto e indissolubile binomio stato-gendarme. Senza uno l’altro non può esistere.

Lo stato che per sostenersi infiltra i propri gendarmi nelle scuole per imporre la cultura militarista e la sua agenda retorica.

È triste constatare come nei piani di studio delle scuole medie superiori il ‘900 venga già difficilmente trattato e quando viene approfondito sia spesso letto con gli occhi velati dalla congiuntivite politica. Possiamo ben immaginare come il disegno sia chiaro e volto a forgiare nuove generazioni di soldati ubbidienti, pronti a sacrificare la propria vita o la propria libertà per lo stato, che di nuovi figli pronti per il massacro ne ha sempre bisogno.

C’è chi di fronte alle parole di Filisetti chiede le sue dimissioni, chi si indigna, chi fa appelli.

Il sentimento di schifo, di rabbia e d’odio oggi come allora sono immutati, altro che eroismo viva i disertori, sabotatori, i renitenti, tutti quelli che la guerra e l’ignoranza l’hanno odiata e combattuta.

Loro sì che sentiamo presenti nelle nostre quotidianità.

Pernice Nera

Apatie asintomatiche

Novembre 12th, 2020 by currac

Nella nostra rassegna di articoli di analisi sul tema “emergenza pandemica” abbiamo ritenuto necessario riservare uno spazio particolare agli esseri umani internati nelle RSA italiane. Utilizziamo il termine internati consci del forte valore costrittivo che ciò sottintende.

Di fatto costoro da mesi vivono una situazione per certi versi paragonabile al regime di massima sicurezza riservato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi.

Attraverso questo scritto intendiamo dare risalto a delle problematiche quasi totalmente eluse dalla copertura mediatica, e ridare così voce e dignità a migliaia di persone attualmente spogliate dei più elementari diritti dell’individuo.

Una premessa è d’obbligo: la situazione nelle RSA italiane non era certo rosea neppure prima dell’epoca Covid, quest’ultima non ha fatto altro che cristallizzare grossi deficit sedimentati da decenni.

La mentalità aziendale, incoraggiata dalle istituzioni, ha da tempo occupato la sfera dell’assistenza alla terza età; una miriade di fondazioni private e S.P.A. (fra queste vi sono veri e propri colossi come la KOS del noto imprenditore Carlo De Benedetti, con 116 strutture sul territorio nazionale) si sono negli ultimi decenni sostituite al pubblico, trasformando in un affare colossale la gestione degli ospizi attraverso la solita ricetta neoliberista che ogni impresa dedita al profitto mette in pratica.

Tagli al personale, al costo del personale stesso, riduzione di tutte le spese vive a partire dal vitto, riduzione di tutte le attività ricreative e stimolanti tese a rallentare il deterioramento cognitivo e fisico ( a compensazione di ciò si privilegia una posologia farmaceutica ricchissima di sedativi e psicofarmaci).

Con regolare cadenza negli ultimi anni sono emersi episodi che chiamare di degrado è un eufemismo; vessazioni e maltrattamenti ai danni degli utenti sono più volte stati documentati da indagini di polizia e giornalismo d’inchiesta. Tutto lascia presumere che i casi venuti alla luce rappresentino solo la punta dell’iceberg.

Ed ecco che dal mese di marzo (ufficialmente) si abbatte su questo già di per sè desolante panorama l’incubo del virus. Gli anziani nelle RSA vengono immediatamente isolati dai loro affetti e le visite dall’esterno inibite. Nel contempo però su indicazione di una delibera del consiglio regionale lombardo, ma non solo in Lombardia, pazienti positivi con sintomatologia lieve vengono ricoverati negli ospizi. Si dirà poi in condizioni di isolamento rispetto agli altri, ma il personale che li cura è innegabilmente lo stesso. I dispositivi di protezione forniti agli operatori sono del tutto deficitari, come inadeguato è il monitoraggio delle infezioni.

Ad una percentuale rilevante di lavoratori che finiscono col tempo positivi in quarantena , si aggiunge la defezione (per non chiamarla diserzione come fece un dirigente del 118 ad aprile) di un numero elevato di personale sanitario. Si badi bene, il nostro non è un attacco alla categoria e neanche un giudizio umano, ma una semplice costatazione. Probabilmente molti di costoro si sono sentiti poco tutelati, oltre che spaventati dall’ isteria mediatica che dava (e continua a farlo) una rappresentazione del Covid in linea con l’ebola. Il risultato di questi fattori è che nel periodo che va dal 15 marzo al 15 maggio la maggioranza delle RSA italiane si trova ad operare con organici (già di per sé stringati) ridotti con percentuali picco dell’ 80 %. In che misura ciò abbia contribuito al torrente di decessi per/con covid negli ospizi (oltre la metà del totale nazionale) non ci è dato sapere.

Queste gravissime mancanze di tutela degli utenti, rendono se possibile ancor più inaccettabili le misure di totale isolamento dalle famiglie. In attesa di una morte biologica non lontana, già di per se ostacolata da un eccessivo accanimento terapeutico non in sintonia con il ciclo naturale della vita, questi dannati sperimentano una morte affettiva continuata ed ostativa.

Molte anime belle auspicavano l’emergenza pandemica potesse essere un’opportunità per ridiscutere l’impegno pubblico nella sanità e nell’assistenza ai bisognosi. L’inazione dello stato negli ultimi mesi (che altro aspettarsi dalla stessa classe politica che ha tagliato solo dal 2012 ad oggi 37 miliardi di euro dal bilancio sanitario) ha ampiamente dimostrato che si tratta di una pia illusione. La gestione privata , che per decenni hanno tentato di venderci come più efficiente e sostenibile, ovviamente ricerca il profitto a discapito della salute.

E la religione del Dio Denaro porta ineluttabilmente alla morte dello spirito. Fintanto che questi saranno i principi regolatori della nostra società, continueremo ad assistere alla marginalizzazione degli anziani come di tutti gli individui giudicati improduttivi.

L’orribile cinismo del capitale ha provocato nei più una mutazione antropologica che ha scalzato i nostri vecchi dal venerato ruolo avuto in ogni società preindustriale, quello di memoria e guida di un popolo.

Ridare loro centralità e rispetto è dovere di ogni essere umano degno di questo nome.

Perché gli anziani sono il nostro passato e il nostro futuro allo stesso tempo, custodi della nostra

memoria e specchio del nostro divenire.

Winston e Julia, Novembre 2020 o 1984?

 

D’Annunzio: Un nuovo brand

Novembre 10th, 2020 by currac

D’ANNUNZIO: UN NUOVO BRAND

Questo scritto vuole aggiungere un nuovo contributo alle analisi raccolte nella sezione “Storia e Memoria”, alla luce dell’uscita del film sugli ultimi anni di vita di Gabriele d’Annunzio “Il cattivo poeta”.

Il film è stato presentato il 5 settembre 2020 all’Aurum di Pescara, città natale di D’Annunzio, in occasione della esposizione de “La Carta del Carnaro” e che sarebbe dovuto uscire nelle sale cinematografiche il prossimo 12 novembre.

Due eventi non certo casuali, due ricorrenze centenarie, la firma della “Carta del Carnaro” e la sottoscrizione del trattato di Rapallo.

Il trattato di Rapallo fu l’accordo, conseguente al macello della prima guerra mondiale, del trattato di pace di Parigi e del trattato di Saint-Germain, con il quale il regno d’Italia Italia e il regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini delle rispettive sovranità.

Questo provocò l’immediata annessione al Regno d’Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara e, si stima, più di 800.000 ex sudditi dell’impero austro-ungarico si ritrovarono minoranza in un nuovo paese.

Innegabili furono le conseguenze di questo trattato che colpirono soprattutto le popolazioni non italiane.

Le abbiamo trattate nell’articolo “Le foibe”; la ghettizzazione, ad opera del regno d’Italia, della popolazione jugoslava passò per l’italianizzazione della toponomastica, dei cognomi, l’abolizione dell’insegnamento della lingua slovena nelle scuole, l’obbligo per gli insegnati di essere italiani e che degenerò, nel 1941, con l’invasione tedesca della Jugoslavia del 1941 e supportata dall’Italia fascista, con la circolare 3C che equiparava la popolazione civile inerme ai militari rendendola soggetta a rappresaglie, depredazioni e incendi di case e villaggi, esecuzioni sommarie e internamenti nei vari campi di eliminazione.

Una circolare che possiamo immaginare che strascichi abbia lasciato nelle memorie e non solo della popolazione civile jugoslava.

Noti sono i crimini e le discriminazioni, nota è la madre di queste disgrazie, la guerra, come è nota la strategia di bonifica etnica della regione.

Ma nonostante ciò lo scorso anno abbiamo visto accogliere in pompa magna dalle istituzioni, lacustri e non, la falange di Riccardo Gigante che così ha potuto raggiungere nel riposo eterno il suo amico D’Annunzio nel mausoleo del Vittoriale degli italiani.

Gigante che da sindaco di Fiume appoggiò tutte le politiche di italianizzazione forzata dell’area, e dal 1941, sostenne l’invasione della Jugoslavia. Figura che mise le basi per il perpetrarsi di quei crimini e che trovano conferma e appoggio nelle parole pronunciate da Mussolini, il 22 settembre 1920 a Pola: «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone […] credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

E se sul film non avendolo visto non possiamo esprimere un giudizio vogliamo con questo scritto evidenziare come troppo spesso realtà e fantasia si mischino e la storia, con le sue ricorrenze, venga troppo spesso presa a pretesto per fini diversi dalla sua analisi e divulgazione.

E se il film lo può fare per una mera questione commerciale, o almeno ci auguriamo possa essere solo così, la figura di D’Annunzio no. Dietro questa c’è molto di più e conferma ci viene dalla bocca dell’attuale sindaco di Pescara, Carlo Masci che in occasione della presentazione della Carta del Carnaro si è espresso così: ”D’Annunzio è un brand formidabile per Pescara che deve riconoscersi nella sua immagine. Molte città si definiscono dannunziane, ma c’è un’unica città in cui è nato e solo noi possiamo fregiarci del suo nome”.

Ma cosa c’è dietro questo brand? E cosa c’è da rispecchiarsi nell’immagine dell’autoproclamatosi vate?

C’è una cultura nazionalista, patriottica, sessista, guerrafondaia che tanti danni e dolori ha causato.

Dietro questa figura c’è un revisionismo storico, costante e incessante che mira ad inserire uno spirito identitario, oggi pienamente calato nella narrazione tossica che cancella le colpe e esalta le gesta, ad uso e consumo delle varie componenti nazionaliste istituzionali e non.

Uno scempio rispetto alla realtà, alle sofferenze patite, perché forse ciò che servirebbe è un’autocritica e un’attenta analisi, una presa di coscienza dei crimini commessi e l’accettazione che da ricordare non sono solo propri ma tutti, ovviamente da ricordare con rabbia. Aspetti che sarebbe davvero bello avessero una centralità non solo nella vita culturale ma anche nelle giornate come quella del 10 febbraio.

Ma si sa, un brand serve per far soldi o voti, non Cultura!

Valsabbin* Refrattar*

70 Milioni al giorno

Novembre 5th, 2020 by currac

70 milioni non è l’incredibile numero di notizie sul coronavirus con cui siamo continuamente bombardati, ma sono gli euro quotidiani della spesa militare italiana.

Dei circa 25,5 miliardi annui che lo stato italiano dedica alle armi nel suo bilancio, 15 miliardi circa vanno per l’acquisto dei caccia F35, 6 miliardi per le fregate FREMM (nomen omen) non certo strumenti di pace o per portare aiuti umanitari, ma per bombardare distruggere e uccidere e circa 7 miliardi è la spesa dedicata agli armamenti leggeri e ai mezzi blindati con aziende come Iveco, Fincantieri e Leonardo tra i principali beneficiari.

Vanno alle 36 missioni militari all’estero, con migliaia di militari a difesa degli interessi economici delle grandi corporation, una su tutte l’Eni. La sovrapposizione tra gli stati dove sono attive delle missioni militari italiane e gli interessi dell’Eni è quasi totale. Vanno a finanziare milizie pubbliche a protezione di interessi privati, situazione emersa alle cronache con la vicenda dei marò.

Lo scorso marzo, in pieno clima virus, col decreto “Cura Italia” il governo ha stanziato 25 miliardi di misure economiche straordinarie per rispondere all’emergenza sanitaria. Stesso importo del bilancio annuale per la Difesa.

Il parallelo è inclemente, senza le spese militari avremmo potuto avere strutture, attrezzature, personale, insomma salute e molte vite in più.

Quanti soldi vengono gettati, quanti ospedali vale una freccia tricolore, quelle passate sopra la testa di Mattarella proprio ieri 4 novembre, feste delle forze armate?

E se già questo aspetto dovrebbe indignarci, a rendere ancora più indigeribile la pillola c’è la Nato che nonostante tutto tira dritto e pretende che venga investito il 2% del Pil nazionale nelle spese militari.

Ma questa analisi non vuole limitarsi alla mera questione economica.

Vogliamo evidenziare come i conflitti sociali ed economici latenti, si badi bene non più chiamati guerre perché è un termine non più politicamente corretto, stiano emergendo sempre più con veemenza e la contrapposizione e frattura tra chi sta in alto e comanda e chi sta in basso è sempre più ampia.

Nel momento in cui, con le ultime crisi economiche e il virus, la ricchezza globale è sempre più concentrata nelle mani di pochi, è naturale pensare come l’insistere sulla spesa militare sia finalizzata alla difesa non di fantomatici confini ma di quelle posizioni di privilegio e di potere affermatesi in questo sistema capitalista.

A questo aggiungiamo che le anamnesi mediche che vanno oltre il quadro clinico e che indagano anche gli aspetti sociali dei pazienti ci indicano chiaramente come le fasce sociali a bassa scolarizzazione, a rischio povertà o povere e che vivono in ambienti di periferia o degradati siano più colpite dalle malattie e anche da questo virus

Parallelamente queste fasce sociali sono quelle che di fronte a queste ingiustizie sono scese in piazza a gridare lo sdegno e sono state colpite molto duramente per avere messo in discussione lo stato attuale delle cose.

E alla faccia anche dei richiami alla pacificazione e alla responsabilità questo non è più il tempo per stare chiusi in casa aspettando che anche questa crisi passi, muti, miti e isolati.

Ci stanno dividendo e schiacciando e stanno raffinando sempre di più i sistemi di controllo ma soprattutto si stanno armando, stanno infiltrando la società con la cultura militarista, dalle scuole alle fabbriche e stanno mettendo in essere tutta una serie di azioni per reprimere i fermenti sociali che stanno ribollendo e che non hanno ancora trovato una direzione univoca.

Si vis pacem, para bellum se vuoi la pace, prepara la guerra è una locuzione latina di 1500 anni fa. E se della loro pace non sappiamo che farcene della loro guerra dobbiamo ben guardarcene, perché siamo noi i nemici.

Lo siamo nella misura in cui repressione, soldi, guerra-conflitti sociali e salute sono argomenti assolutamente collegati, perché la guerra si fa con chi non è allineato al pensiero unico e si prepara con tanti, tanti soldi, gli stessi che mancano nel sistema sanitario e nelle nostre vite ma che in fondo sappiamo bene esistere.

Basta solo prenderli o pretenderli.

Valsabbin* Refrattar*

 

Fonti consultate per questo articolo:

Rete italiana per il Disarmo

Osservatorio Mil€x

Fondazione Gimbe

 

La distruzione di un sistema sanitario

Novembre 1st, 2020 by currac

Dopo gli scritti dal titolo “Distopie pandemiche” e “A-Socialità pedagocica” prosegue con questo terzo articolo l’analisi a firma Winston e Julia.

Il sistema sanitario nazionale così come lo conosciamo è stato creato verso la fine degli anni ‘70 con l’obiettivo di accorpare e regolare le varie casse di mutua allora esistenti.

L’impianto di allora prevedeva la decentralizzazione delle deleghe dallo stato alle regioni e fin dai primi anni la regione Lombardia ha rappresentato una delle eccellenze a livello nazionale.

Dall’inizio degli anni ’90 in questo scenario si è affacciata la sanità privata che pian piano si è presentata come partner statale e sostituto per quelle prestazioni che il pubblico non aveva tempo o risorse per gestire fino ad arrivare a gestire la parte preponderante dei fondi pubblici erogati.

 

La trasformazione in aziende sanitarie degli ospedali ha introdotto logiche di profitto all’interno del sistema, tagli al personale, tagli alla spesa per le prestazioni poco redditizie e carenze delle erogazioni si sono abbattuti sul bene più prezioso che abbiamo, la nostra salute.

Lottizzazione, mercificazione dei servizi sono da allora stati parte integrante del sistema, l’inevitabilità del dovere fare profitto ha scalzato il servizio universale di sanità pubblica.

La precarizzazione del lavoro ha tagliato quel fondamentale legame di solidarietà e comunicazione tra il personale interno ed esterno agli ospedali rendendo evidente il triste paradosso che se sei ricattabile accetti, non ti lamenti e non denunci.

Nella nostra memoria abbiamo impresso l’impegno dei medici che, negli anni ‘70 e ‘80, hanno pubblicamente denunciato i danni derivanti dall’esposizione all’amianto.

E di fronte all’arrivo del Covid-19 il sistema sanitario non ha retto, o meglio non ha potuto reggere.

Il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” del Centro Studi Nebo ha presentato la misura esatta dell’emergenza: in meno di 40 anni sono stati tagliati 339 mila posti letto (da 530 a 191 mila) e il rapporto posti letto ogni mille abitanti è passato da 5,8 a 3,6.

Stando ai dati del ministero della Salute, rielaborati da Anaao Giovani (il sindacato dei medici), nel 2010 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.165 istituti di cura, di cui il 54% pubblici e il 46% privati; oggi il numero è sceso a mille unità, ma a diminuire sono state di più le strutture pubbliche, queste ultime dislocate soprattutto in Lazio, Lombardia, Sicilia e Campania.

Dal 2012, governo Monti, il mantra del “del pareggio di bilancio” ha portato ad un inasprirsi delle politiche di taglio della spesa pubblica e delle spese sanitarie.

Il taglio orizzontale del 5% di spesa, che ha penalizzato soprattutto le regioni con i sistemi più inefficienti, ha comportato anche il taglio per i dispositivi sanitari di protezione.

E se consideriamo che le RSA in Lombardia sono per il 95% a gestione privata e assorbono 950 milioni di euro su uno stanziamento totale di 1,5 miliardi, a cui vanno aggiunte anche le rette pagate dagli utenti stessi, capiamo come il privato abbia sempre più assunto un atteggiamento più da parassita che da partner.

Questa gestione ha causato, a giugno, positività al Covid-19 del 42% degli operatori Rsa e il dato è sicuramente sottostimato visto il numero di tamponi fatti.

Che mancassero le mascherine è un fatto noto, come noto è che alcuni di questi operatori la vita l’hanno persa o l’hanno fatta perdere contagiando i loro assistiti, alla faccia dei podisti untori.

La distruzione del sistema sanitario pubblico nazionale è avvenuta gradualmente, è avvenuta per l’incapacità dello stato di resistere alle pressioni delle lobby e degli interessi di potere di chi nelle istituzioni statali ricopre ruoli.

E quindi è sì accaduta per l’avidità di pochi ma anche per l’inerzia di molti (Noi) che di fronte a questo scempio non hanno mai detto NO!

Meditiamo.

Al prossimo articolo

Winston e Julia, Novembre 2020

A-Socialità Pedagogica

Ottobre 27th, 2020 by currac

Prosegue con questo secondo articolo a firma Winston e Julia l’analisi dello sconcertante periodo che stiamo attraversando.

A quasi due mesi dalla riapertura delle scuole crediamo sia interessante analizzarne la nuova realtà.

Cosa è cambiato, quali sono le motivazioni profonde di questi cambiamenti e che impatto stanno avendo e avranno sulle varie parti in causa e sul concetto stesso d’Istruzione.

Per analizzare ciò che sta succedendo ad oggi nel sistema scolastico e valutare i rischi conseguenti alle misure preventive messe in atto, bisogna forse fare un passo indietro e riflettere su quelli che dovrebbero essere i valori e le caratteristiche proprie di un luogo dedicato all’istruzione, alla cultura e alla formazione personale, secondo il significato stesso della parola, dar forma agli individui nella loro completezza.

Per definirsi tale questo luogo dovrebbe garantire agli studenti la possibilità di sviluppare la capacità di relazionarsi e cooperare con il prossimo, assecondando la natura sociale propria dell’essere umano e di sviluppare un senso critico attraverso lo studio e la cultura.

Presupposti questi che sono in netto contrasto con la situazione attuale in cui siamo costretti a confrontarci con una scuola nella quale se già prima le troppe ore passate in classe erano causa di frustrazione e stress ora gli studenti si trovano vincolati nelle aule e costretti ognuno dietro al proprio banco anche durante la ricreazione, tradizionale momento di decompressione e di ritrovo, impossibilitati in pratica a scambiarsi qualsivoglia oggetto, forma d’aiuto o gesto d’affetto.

Tra le altre restrizioni in atto troviamo ovviamente l’obbligo di mascherina per gli studenti al di sopra dei sei anni e per gli insegnanti anche negli asili, il che rende difficile costruire un rapporto di fiducia tra studenti e tra maestri e bambini.

Sempre nell’ottica di una scuola sana ed equilibrata i bambini sono costretti a sfilare in fila indiana per il controllo della temperatura, e nel caso qualcuno risulti con un paio di tacche di febbre viene isolato in un locale a parte in attesa dell’arrivo dei genitori che devono accorrere immediatamente a dispetto degli impegni lavorativi, familiari o delle possibilità pratiche.

Per finire, se così si può dire, assistiamo inermi alla legittimazione della presenza delle forze dell’ordine all’interno delle strutture scolastiche, tra cui asili e scuole elementari, per effettuare controlli ed ammonire gli insegnanti che non si adattano perfettamente alle norme vigenti interpretando un ruolo che non è di loro pertinenza in quanto proprio del direttore scolastico, il tutto senza considerare l’impatto che queste azioni possono avere sugli insegnanti stessi e sui bambini.

Il risultato è che ci si abitua, in previsione dell’ingresso nel mondo lavorativo, a vivere i momenti a scuola e correlati con stress ed è evidente che in queste condizioni diventa pressoché impossibile sperimentare quel che sono cooperazione, fiducia e umanità per cui è fondamentale un contatto diretto e spontaneo.

Il corto circuito della gestione scolastica in tempo di Covid è messo in evidenza dal paradosso interno all’abbinamento di parole Distanziamento Sociale dove troviamo accostati due termini con significati opposti tra loro.

Distanziamento ossia porre distanza, dividere e sociale da socius,che significa compagno, ove sociare significa unire.

La domanda quindi sorge spontanea, come può funzionare una scuola che in quanto tale dovrebbe favorire lo sviluppo completo degli individui in primo luogo attraverso il processo di  socializzazione,seguendo i crismi del distanziamento sociale?

Bisognerebbe mettere sul piatto della bilancia i rischi sanitari da un lato e dall’altro quelli psicologici e formativi degli studenti, tra cui bambini che stanno sviluppando la loro struttura psicologica e che non riescono a cogliere il fattore emergenziale del momento e assimilano come norme di vita queste misure.

Quando sia dal governo che dai media si ha l’impressione di una diffusione di dati allarmistici, talvolta in contrasto tra di loro, e di misure di dubbia efficacia, sarebbe opportuno prendere in considerazione alcuni dati per poter fare una potenziale valutazione dei rischi effettivi.

Mentre i numeri dei decessi rimangono invariati tra i dati diffusi dalla protezione civile italiana e quelli risultanti da studi sierologici il numero dei contagi è ben differente.

Secondo questi studi il numero dei contagiati in Italia sarebbe di molto maggiore rispetto ai dati diffusi dalla protezione civile, di conseguenza il tasso di letalità del virus crollerebbe drasticamente.

Non si può dire lo stesso riguardo i decessi causati da malattie cardiovascolari e tumori che da marzo ad ora sono rispettivamente il triplo ed il doppio rispetto al numero di decessi ufficiali per coronavirus, e sui quali volutamente non viene posta alcuna attenzione.

Viene spontaneo domandarsi allora se il fine giustifica i mezzi, se realmente vi sia la necessità di queste misure preventive e in caso contrario a chi giova tutta questa caotica situazione.

Ragioniamo quindi sulle direzioni che sta prendendo questa faccenda, direzioni le cui forme in alcuni casi si presentano come delle novità, mentre in altri casi sembra di assistere ad un acceleramento di meccanismi che già da parecchi anni sono stati messi in luogo nel sistema scolastico e non solo.

Cerchiamo di individuare il punto d’arrivo verso cui la scuola si sta muovendo già da anni attraverso un’analisi della sua struttura organizzativa e formativa.

Pensiamo ad esempio al sistema di debiti e crediti così come alla scelta di terminologie quali offerta didattica e competenza tecnica, risulta evidente che questi non possono che essere elementi peculiari di una scuola che fonda i suoi valori e le sue finalità su concetti di produttività, specializzazione e profitto in piena ottica imprenditoriale.

Non per nulla da anni assistiamo ad un abbandono delle facoltà umanistiche, che attraverso un percorso di analisi storica favoriscono lo sviluppo di un senso critico in favore di quelle tecniche e scientifiche che permettono di sviluppare conoscenze di settore specifiche e parziali e che formano individui che altro non sono che ingranaggi di una grande macchina interdipendenti gli uni dagli altri.

Cosa significa questo in una società che ci spinge a percepire il prossimo come un fattore di rischio da tenere a distanza?

Significa che questi rapporti di interdipendenza lavorativa sono possibili grazie all’utilizzo di strumenti tecnologici, che ci permettono di entrare in comunicazione con individui sparsi sul globo che possono colmare le nostre lacune formative con le loro competenze parziali favorendo un processo di normalizzazione ed interiorizzazione di un individualismo che già ci ha contaminati da tempo, favorendo un iper socializzazione digitale a discapito di rapporti umani con le persone che ci circondano per i quali è fondamentale un confronto diretto, fatto di incontro e scontro che permette di formarci anche in relazione all’altro e alla comunità.

Per seguire la parabola di questo processo in atto basti pensare a quanto negli ultimi anni la tecnologia si è inserita nelle scuole dall’avvento del registro elettronico, dei computer individuali e dei tablet e che raggiunge l’apice oggi nella didattica online con tutte le sue sottili sfumature.

Pare assurdo che in un presente nel quale sempre piu’ giovani trascorrono troppo tempo relazionandosi a tecnologie e social network la scuola li ponga ormai praticamente nella condizione di abusarne anche all’interno della struttura scolastica.

In questo articolo ci concentriamo sulla scuola perchè crediamo sia bene ricordare che ciò che avviene al suo interno e i meccanismi che la muovono ci toccano in massa in qualità di genitori, studenti o insegnanti.

Sembra proprio che si stia assistendo ad un capovolgimento totale, quello che dovrebbe essere un luogo sicuro di incontro di giovani menti in pieno sviluppo viene utilizzato sia come terreno di dottrina che come detonatore sociale per far si che nuovi valori si radichino nella coscienza di giovani e bambini e quindi si diffondano nella società.

Bisogna forse fermarsi un attimo e domandarsi seriamente se siamo disposti ad assecondare questo status quo delle cose per timore di un possibile contagio e soprattutto se questo contagio sia davvero piu allarmante di quello in atto sul piano morale e sociale, che sembra aprire la strada ad una nuovo totalitarismo del quale tecnologia e terapia sono strumenti con un peso specifico non indifferente.

Quando tutti camminano in una direzione univoca rendersi conto che forse non per forza è la direzione corretta e decidere di far marcia indietro in mezzo alla folla diventa ben complicato, forse sarebbe il caso di ricordarselo.

Darsi il tempo di riflettere prima di muovere il primo passo potrebbe essere un punto di partenza verso un recupero di consapevolezza quanto mai necessario in questo momento storico.

 

Al prossimo articolo.

Winston e Julia, Ottobre 2020