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A 20 anni dal G8 di Genova 3

sabato, Luglio 31st, 2021

Con questo terzo articolo concludiamo il breve percorso di racconto delle giornate del G8 di Genova e dopo avere ripercorso i fatti principali e le vicende giudiziarie che hanno coinvolto gli allora responsabili dell’”ordine” pubblico e le loro violenze pianificate  in questo articolo parleremo delle vicende che sono occorse ai manifestanti.

Gli scontri di quelle giornate portarono a numerosissimi fermi che spesso si risolsero in multe e sanzioni amministrative ma anche rimpatri forzati e che diedero il via anche a numerosi processi. Quello che più ha avuto eco mediatico è stato quello contro il cosiddetto blocco nero, o processo dei 25, in cui sono stati condannati in primo grado in 24 per un totale di 110 anni, 10 per il reato di devastazione e saccheggio, 13 per danneggiamento e 1 per lesioni. Pene poi riviste in secondo grado e in cassazione.

Sul reato di devastazione e saccheggio ci sarebbe molto da dire: previsto dal codice Rocco in piena epoca fascista e di tempi dove era necessario reprimere qualsiasi forma di dissenso e quasi mai utilizzato dal dopoguerra se non per rari casi negli anni sessanta, è stato rispolverato e applicato prima per punire chi aveva partecipato alla manifestazione organizzata a seguito della morte di Baleno (anarchico morto suicida)  poi proprio per il G8 per punire quei fenomeni di piazza.

Come tutti i reati e le misure che provengono direttamente dal codice Rocco, come la sorveglianza speciale o i fogli di via, anche questo si inserisce nel tentativo dello stato di seppellire sotto anni di isolamento o carcere qualsiasi forma di conflitto o di limitare preventivamente qualsiasi forma protesta pubblica.

Oggi quasi tutti i condannati per quei processi sono in libertà; tra i pochi che sono riusciti a sottrarsi al carcere c’è Vincenzo Vecchi rifugiatosi in Francia. Pochi mesi fa però è giunta anche per lui la richiesta di estradizione ma la Francia, come accaduto per altre situazioni, spinta anche dalle centinaia di mobilitazioni in tutto il territorio transalpino ha vietato l’estradizione e ha passato la palla della decisione alla Corte Europea, considerando la condanna inflitta dai tribunali italiani ingiusta e sproporzionata rispetto alla realtà dei fatti.

Meno bene invece sta andando a Luca che sta terminando di scontare la condanna per devastazione e saccheggio nel carcere di Cremona e che nei giorni del ventennale ha potuto sentire dalla sua cella la solidarietà di chi non l’ha certo dimenticato.

Le verità processuali hanno solo in parte accertato le violenze e come sempre accade quelle che più hanno fatto clamore sono state quelle compiute dai manifestanti. Troppo spesso si è taciuto sulle condanne della corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia per le sospensioni delle libertà, per la gestione inumana e per le torture in piazza, nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.

Oggi troppo spesso si parla di verità e giustizia, ma sappiamo benissimo che quella che può uscire da un tribunale può essere una giustizia che di giusto non ha nulla perché la vendetta rancorosa è stata il sentimento predominante di chi ha giudicato gli altri senza avere mai fatto i conti con le proprie responsabilità.

Quelle giornate sono state una delle pagine più buie di questo ventunesimo secolo che tante, troppe, analogie hanno con quelli che sono passati alla storia come anni di piombo dove a pagare caro sono state solo le vittime di quella strategia e i carnefici e i mandanti sono rimasti impuniti se non premiati per il loro operato.

A 20 anni di distanza sappiamo che quelle idee e quelle proteste sono davvero sempre più attuali e necessarie in questo mondo dove quell’idea di sviluppo capitalista proposta da quei vertici sta portando alla devastazione e al saccheggio delle nostre vite e dei nostri territori.

Da Genova ad oggi, in ogni caso nessun rimorso!

Valsabbin* Refrattar*

A 20 anni dal G8 di Genova 2

venerdì, Luglio 23rd, 2021

Prosegue con questo secondo scritto l’analisi e il racconto delle giornate di protesta e proposta contro del G8 svoltosi a Genova nel luglio del 2001.  A 20 anni di distanza da quei fatti ciò che troppo spesso resta nelle nostre memorie sono le violenze di quei giorni che hanno avuto il suo culmine con l’uccisione di Carlo Giuliani.

Il G8 di Genova ha per certi versi rappresentato un punto di svolta sia per le tecnologie utilizzate per “dissuadere” e contenere i manifestanti, ad esempio con l’uso di gas lacrimogeni normalmente utilizzati in teatri di guerra, che per gli episodi di violenza organizzati e le sospensioni ripetute e pianificate a tavolino delle libertà personali dagli allora vertici al comando nominati dall’allora governo Berlusconi.

La scelta di mandare a macellare i manifestanti nelle strade, come con i pacifisti con le mani dipinte di bianco alzate caricati a freddo, o nella scuola Diaz o i soprusi della caserma di Bolzaneto dove le forze dell’ordine picchiavano i fermati al coro di “un due tre, viva Pinochet, quattro cinque sei, a morte gli ebrei, sette otto nove, il negretto non commuove” hanno portato a processi con condanne oggi definitive, sia per chi ha ordinato quelle torture che per chi le ha eseguite ma anche per chi ha depistato le indagini successive.

La cosa che sorprende, ma neanche troppo, è vedere come le stesse persone condannate per quegli episodi siano negli anni state sempre promosse e abbiano potuto continuare a ricoprire dei posti di comando nella gestione della sicurezza nazionale.

Come Gilberto Caldarozzi allora numero due dello Sco (servizio centrale operativo, unità che coordina le squadre mobili delle questure italiane) condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per aver partecipato alla creazione di false prove, nel 2017 nominato vicedirettore della Dia, direzione investigativa antimafia.

O come Francesco Gratteri condannato per falso aggravato per l’irruzione alla scuola Diaz che oggi dichiara che fu ingannato e che non deve chiedere scusa, ingannato da chi e perché non è dato sapersi; o di Gianni de Gennaro capo della polizia durante il G8, per cui l’Italia è stata condannata dalla corte europea dei diritti dell’uomo per non avere impedito le torture, sempre promosso a posti di comando e sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri del governo Monti. Dal 2013 al 2020 è stato presidente dell’azienda Leonardo (ex Finmeccanica), fiore all’occhiello dell’industria della morte italiana.

Lo scorso novembre è stata approvata dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli la promozione a vicequestori di due funzionari di polizia condannati in via definitiva per le false molotov alla scuola Diaz; molotov che hanno costituito l’alibi perfetto per l’irruzione di quegli sgherri e i successivi pestaggi indiscriminati.

Solo alcuni nomi che però ci indicano chiaramente come lo stato i suoi più fedeli e zelanti servitori li ha sempre premiati.

E se i processi hanno forse accertato solo una piccola, minuscola parte di verità, parziale e troppo spesso funzionale, da Genova ad oggi la presenza delle forze dell’ordine e la necessità di controllo preventivo, fatto passare come sicurezza, hanno sempre avuto maggiore peso nelle nostre vite e si sono acuite col periodo covid.

Abbiamo sotto gli occhi i video la spedizione punitiva dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere contro i detenuti che hanno osato rivoltarsi contro la gestione pendemica, che dovrebbero far sobbalzare anche il più convinto democratico o le cariche a freddo subite dai facchini in protesta recentemente passate alle cronache per la morte di Adil Belakhdim, delegato sindacale, investito da un camionista.

E possiamo chiedere che vengano approvati in sede parlamentare il reato di tortura o i numeri identificativi per le forze dell’ ordine ma senza avere chiaro che dare sempre maggiore spazio d’azione, impunità e potere a queste categorie in nome della sicurezza può avere solo l’effetto descritto da Benjamin Franklin padre fondatore degli Stati Uniti d’America, non certo un pericoloso manifestante: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza.”

E se della loro sicurezza poco ce ne facciamo della libertà ce ne occupiamo assai perché Genova come le rivolte carcerarie o come i pestaggi subiti dai facchini in sciopero hanno dimostrano come si possa continuare a parlare di casi isolati, di servitori infedeli o di mele marce che però se vengono continuamente promosse per il loro operato renderanno prima o poi necessario tagliare l’albero dalle sue radici.

E questa volontà di cambiamento è stata anima di quelle giornate e spirito della nostra quotidianità.

Al prossimo articolo.

 

A 20 anni dal G8 di Genova 1

sabato, Luglio 17th, 2021

A 20 anni dalle giornate di Genova, quando dal 19 al 22 luglio 2001 nel capoluogo ligure si riunirono i capi di governo degli 8 paesi più industrializzati per discutere del futuro del mondo, ci sembra giusto parlare di quei momenti raccontando ciò che fu, cercando di analizzare quell’esperienza e raccogliendo quella sorta di “eredità” e lo faremo in tre articoli approfondendo le connessioni tra allora e il periodo contingente, le violenze di quei giorni e quelle di oggi e cercando alcuni spunti per il futuro.

Tra i punti trattati nel vertice ufficiale ci fu la cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo e la lotta alla povertà, lo squilibrio nelle conoscenze tecnologiche, l’ambiente, l’architettura finanziaria e la democratizzazione mondiale.

Parallelamente fu organizzato un contro vertice molto partecipato e numerosi cortei più o meno pacifici volti a interrompere o disturbare la tavola rotonda dei potenti asserragliati in un’area militarizzata chiamata zona rossa, la prima delle tante che poi si sono succedute.

Quelle giornate videro una delle mobilitazioni più importanti del ventunesimo secolo, organizzate da quello che fu allora chiamato movimento “no global”, semplificazione giornalistica per raggruppare le numerosissime voci che animarono quei cortei e quelle idee, che culminò con degli scontri molto pesanti, numerosissimi abusi e la morte del giovane Carlo Giuliani freddato con un colpo di pistola sul viso da un carabiniere.

A due decenni di distanza in un mondo stravolto rispetto ad allora ci sembra doveroso cominciare questa analisi dal tema forse più trasversale della lotta, quello del lavoro anche alla luce del periodo più o meno pandemico che stiamo attraversando e che ha evidenziato come il divario tra le classi subalterne e lavoratrici e i poteri economici e finanziari si sia ampliato.

Un enorme divario, un modello di società uscito dal vertice che ha avuto la sua quasi definitiva affermazione, tant’è che oggi vediamo aziende con dei bilanci pari o superiori a quelli di uno stato e vediamo quel tipo di organizzazione societaria traslato nelle nostre quotidianità.

Aziende come Amazon che ha chiuso il 2020 con un fatturato di 125,56 miliardi di dollari a livello mondiale, in Italia 1,1, miliardi ha imposto a livello globale  quel modello aziendale e sono numerose le analisi volte a fare emergere quella strategia aziendale volta alla trasformazione della forza lavoro a macchine, costantemente tracciate e monitorate affinché la produttività non scenda mai dai livelli “pianificati” forza lavoro che se improduttiva può essere semplicemente sostituita, scartata o rottamata.

Di fronte a queste sproporzioni tra la forza economica e finanziaria e quella lavoratrice, alla flessibilità lavorativa che quel vertice trattò e che oggi sappiamo essersi tradotta in precarietà e vite meno sicure, troviamo assolutamente attuali le tante riflessioni e proposte del controvertice che trattarono di un mondo più locale seppur interconnesso e di un mondo più lento e liberato dall’affanno dell’accumulo capitalista, temi che crediamo siano davvero centrali per il nostro presente e il nostro futuro.

A Genova in un mondo in forte evoluzione, anche se pre smart-life, questa idea di società interconnessa e funzionale al sistema economico fu pensata e pianificata da quelli che allora furono più o meno assediati in quella zona rossa che tante analogie col presente oggi ha.

Una zona invalicabile, controllata e difesa da cerberi armati che può/deve essere spazzata via in un secondo, con una scelta consapevole che il futuro e le nostre libertà sono ancora nelle nostre mani o, con amarezza, nel nostro portafogli.

Fecce tricolori

giovedì, Giugno 17th, 2021

Lo scorso mercoledì abbiamo assistito allo spettacolo che solitamente si compie annualmente ai primi giorni di maggio e che in questo secondo anno dal Covid è stato posticipato, la partenza della Mille Miglia, evento tra i più attesi nel capoluogo bresciano.

Quest’anno la kermesse è stata anticipata dal passaggio delle frecce tricolori che con lo loro volo hanno benedetto l’avvio di questa anacronistica competizione.

Così col naso all’insù ammantati dalla scia colorata di questi velivoli abbiamo potuto assistere a come nonostante tutto e nonostante i morti anche in questa occasione si sia scelto di destinare dei soldi a questo spettacolo da corea del nord anziché ad affrontare e chissà mai risolvere i problemi contingenti.

Travolti dal loro rombo abbiamo apprezzato l’uso in-civile di quei mezzi creati per seminare morte; sopra le nostre teste sono passati ospedali, medici, infermieri, lavoro e vita, con gli stessi aerei, ma verniciati con un diverso colore, che sono progettati per abbatterli e distruggerli nelle guerre neo-coloniali, oggi chiamate missioni di pace, dove l’Italia è coinvolta. Nella scia colorata abbiamo visto le decine e decine di migliaia di euro spesi per l’edizione e i milioni di euro per il progetto Pan, pattuglia acrobatica nazionale che così hanno fatto la loro trionfale sfilata in una delle città che avuto le peggiori conseguente da questo periodo più o meno pandemico.

Uno spettacolo indecente, l’ennesima prova di forza e di desiderio di affermazione di un’identità nazionale inesistente imposta grazie alle guerre coloniali di invasione e agli omicidi di massa del periodo risorgimentale e della prima guerra mondiale che oggi viene rinfocolata grazie a questo avanspettacolo da cinegiornale luce.

L’unità nazionale sotto la cui egida siamo chiamati oggi a fare la nostra parte e sotto cui ogni spirito critico è costretto al silenzio.

In questo periodo di crisi e tensioni sociali non possiamo che concludere parafrasando la celebre frase attribuita a Maria Antonietta: “Se non hanno più pane che mangino le brioches”; e se per lei al popolo affamato dovevano essere dati dei croissant oggi al popolo malato devono essere somministrate le frecce tricolori, non certo come antidoto ma come concausa perfetta della peggiore malattia dei nostri tempi: il nazionalismo.

Valsabbin* Refrattar*

 

Nella foto un pilota della Royal Saudi Air Force accusata di crimini di guerra per i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile in Yemen e ospite di riguardo dell’annuale Air Show delle Frecce Tricolori svoltosi il 5 e 6 settembre 2015 a Rivolto.

 

25 Aprile 2021

domenica, Aprile 25th, 2021

 

Sul senso del dovere

In questo anniversario della festa della Liberazione la riflessione che ci sentiamo fare non può prescindere dalla situazione della nuova normalità pandemica che stiamo attraversando.

Già lo scorso anno, dopo 75 anni dal primo 25 aprile, le nostre vite ordinarie sono state sconvolte e da allora abbiamo assistito ad un bombardamento continuo di notizie, divieti, decreti e soprattutto abbiamo constatato come anche le libertà che pensavamo fossero inviolabili, conquistate in parte con la Resistenza, con la scusa dell’emergenza pandemica siano state serenamente archiviate dando spazio e attuazione a questa nuova normalità.

I parallelismi con quei mesi lontani oggi sono fin troppo evidenti, seppur mossi in parte da motivazioni diverse, anche se collegati da un fil rouge profondo che esiste nel’idea stessa di potere che si sostiene sulla cieca obbedienza della gran parte della popolazione.

Similitudini che riscontriamo nel dibattito intorno al coprifuoco, che questo periodo pare quasi averlo reso strutturale o peggio indispensabile, nelle proroghe continue dello stato di emergenza, nei divieti legati al vivere una socialità spontanea e non ultimo nella presenza dei militari nel governo. Militari per essenza obbedienti e pronti a reprimere qualsiasi dissenso, oggi perfetto alibi per delegare le responsabilità e le scelte individuali e che grazie a questo stato di crisi stanno prendendo sempre più spazio con degli effetti che sono già sotto gli occhi di tutte e tutti. Solo pochi giorni fa un uomo nel placido trentino è stato freddato da un fedele servitore, in casa propria e sotto gli occhi della madre a cui è stato pure impedito di prestare soccorso.

Situazioni che trovano come soluzione la cieca obbedienza e il rispetto del proprio dovere anziché l’orientamento delle proprie scelte e responsabilità individuali in ottica collettiva.

Una situazione per molti versi simile a quella di quegli anni, allora fu chiesto il proprio dovere per la patria, oggi ci viene richiesto di fare la nostra parte, di compiere il nostro dovere per passare questo momento difficile, come se davvero tutto potrà finire così in un attimo come è arrivato.

Il senso del dovere per potere tornare alla libertà di un prima che pare così lontano e bello ma che in realtà è orientato solo a mantenere le attuali dinamiche di potere, perché sia chiaro, più che della nostra salute interessa la nostra capacità lavorativa.

Se c’è un insegnamento che la Resistenza ci ha lasciato è proprio quello che fare il proprio dovere, seguire il dovere richiesto dall’autorità, è la morte delle libertà, seguire i loro richiami in nome di un presunto bene comune è lo stesso che ha portato i nostri compaesani ad invadere paesi, odiare il diverso e accettare passivamente le leggi razziali e tutte le ingiustizie che quel ventennio ha causato, fin dal suo concepimento.

Seguire il proprio sentire consci delle proprie responsabilità individuali e collettive e amare follemente l’idea e i percorsi di Liberazione rispedendo al mittente il richiamo al dovere, plotone d’esecuzione di ogni libertà.

25 Aprile 2021

Valsabbin* Refrattar*

Se Erdogan è un dittatore l’Italia è collaborazionista

sabato, Aprile 10th, 2021

Con le mani grondanti di sangue.

Hanno fatto molto clamore le parole pronunciate dal presidente del consiglio italiano pochi giorni fa a margine di una delle sue periodiche conferenze stampa.

Questo breve discorso, il cui estratto viene riportato fedelmente di seguito, ha scatenato subito le ire dell’amministrazione turca che ha convocato l’ambasciatore italiano e ha immediatamente attivato i principali media italiani, che subito si sono lanciati nel fomentare quel teatrino tipico della politica e dei giochi di palazzo che ha tutto l’interesse a non far emergere il reale significato dietro questo discorso.

“Non condivido assolutamente le posizione del presidente Erdogan, credo sia stato un comportamento inappropriato ,mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente delle commissione europea Von der Leyen ha dovuto subire. (l’assenza di un posto dove sedere durante il loro ultimo incontro ndr)

La considerazione da fare, e forse l’ho già fatta in un’altra conferenza stampa, con questi diciamo, chiamiamoli per quello che sono dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare perché poi, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti,di visioni della società e deve essere anche pronto a collaborare a cooperare, più che collaborare cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese. Questo è importante, bisogna trovare l’equilibrio giusto”

Analizzate queste parole capiamo immediatamente che non ci si trova innanzi al bambino che puntando il dito fa scoprire che il re è nudo, ma ci troviamo nella situazione in cui i registi di questo paese stanno gettando la maschera, veicolando il concetto che unisce in binomio, in un abbraccio mortale, le parole libertà e interessi economici. Siamo liberi e siamo utili fino a che siamo funzionali a questo sistema. Non si spiega come questo cinismo possa essere così sbandierato ed è per questo che di tutto il discorso venga dato eco solo alla parole dittatura e non alla vergogna di questa spregiudicatezza. E i media appecorati in questo intorbidire le acque sono maestri.

E inoltre, può esistere un equilibrio giusto tra l’accettazione di un regime dittatoriale e gli interessi economici? No, ovvio.

Quindi se Erdogan è il ditattore di uno stato dittatorato l’Italia per bocca del suo presidente del consiglio è chiaramente collaborazionista, certo rispettando le proprie diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti,di visioni della società.

Collaborazionista è chi, pur conoscendo bene la caratura dei propri interlocutori e le assenze di libertà nei loro stati, tratta per le forniture di armi (non dimentichiamo le recenti forniture all’Egitto o all’Arabia Saudita), tratta per la tutela delle aziende italiane espatriate per sfruttare meglio la manodopera a basso costo o per pagare meno tasse, tratta perché la Turchia tenga bloccati nei propri lager i migranti siriani o afgani, ceceni o iracheni.

Tratta e tratterà sempre sulla pelle delle e dei giornalisti in carcere, delle torture inflitte ai prigionieri e di chi cerca di attraversare quel paese per cercare un futuro migliore in Europa. Tratta sugli anni di carcere degli oppositori politici o delle minoranze come i curdi o gli armeni sempre oggetto di feroce repressione.

E il governo “dei migliori” collaborazionista lo fa e lo dice per bocca del suo presidente, santificando così il concetto che vede gli interessi economici prima delle libertà e della salute, soldi unico e reale interesse nazionale che viene difeso.

Alla faccia di tutto il resto.

Valsabbin* Refrattar*

Video intervento: https://www.ansa.it/sito/videogallery/italia/2021/04/09/draghi-da-del-dittatore-a-erdogan-ecco-il-passaggio-che-ha-fatto-infuriare-ankara_7d0ad003-603e-410e-b9e6-a249694990fe.html

L’invasione italiana della Jugoslavia

giovedì, Aprile 8th, 2021

Dei fanti e alpini devoti alla mamma e delle vie di Bondone e Baitoni.

Una ricorrenza in questi giorni è passata in sordina, l’indigestione di notizie legate al periodo pandemico ha tolto lo spazio a tutto il resto. Stiamo parlando dell’invasione della Jugoslavia che lo scorso 6 aprile ha festeggiato, se così si può dire, l’ottantesimo anniversario.

Il 6 aprile 1941 le truppe fasciste italiane e naziste tedesche con altri alleati diedero il via all’Operazione 25, nome in codice dell’invasione del Regno di jugoslavia.

Una invasione senza neppure una formale dichiarazione di guerra che, come usanza dell’epoca, veniva presentata dall’ambasciatore nelle mani del governo nemico, ennesima riprova della miopia dei governi nazionalisti alla faccia di chi ancora oggi parla di onore di quei regimi (dichiarazione che anche qualora fosse stata presentata nulla avrebbe tolto alle nefandezze e viltà di quei regimi).

Una invasione che ha avuto come prima conseguenza la capitolazione dell’esercito jugoslavo e successivamente la spartizione dei territori. All’Italia fascista toccarono parte della Slovenia, della zona costiera croata e di parte del Montenegro e Albania.

Da quel momento presa il via l’opera di pulizia etnica e di soprusi , confermati dalla viva voce del duce che nel 1943, ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, due anni dopo dell’invasione, disse: “So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori”.

Questa data ha un significato molto particolare per chi quei crimini li ha subiti e questo giorno in quei paesi è ampiamente ricordato . Per rendersi conto di quello che è stata l’occupazione italiana di quelle aree è sufficiente passeggiare per i paesi croati o sloveni; uno stillicidio di targhe in ricordo dei caduti, delle centinaia di crimini e violenze, esodi forzati, stupri e privazioni perpetuati dai malefici italiani, dagli alpini e fanti devoti alla mamma e alla patria.

Violenze documentate che andrebbero ricordate annualmente anche soprattutto a chi vuole la giornata del ricordo del 10 febbraio eretta a monumento nazionale, il ricordo che pone al centro dell’attenzione le conseguenze (sempre terribili anche se funzionalmente sovrastimate) e non le cause date dalle proprie responsabilità.

Insomma un giorno dove il ricordo lasci spazio alla memoria storica, condivisa. Ovvio non per i fascisti o i nazionalisti di sorta.

Oggi anche nei nostri paesi troviamo i segni di quel periodo.

Li troviamo nella memoria ma anche nell’intitolazione di alcune vie e sembra assurdo che dopo più di 80 anni ci siano ancora. Stiamo parlando delle intitolazioni approvate nel 1939 dal Podestà di Storo che a Baitoni e Bondoni (al tempo i 2 paesi furono aggregati al comune di Storo con Darzo e Lodrone) procedette con l’intitolazione di alcune via a fascisti della prima ora, come Tullio Baroni e Tito Minniti a Bondone e Aldo Sette a Baitoni.

Sarebbe davvero bello che quelle intitolazioni lasciassero spazio ada una nuova consapevolezza conseguente ad una vera presa di coscienza delle responsabilità perché è davvero assurdo che a più di 80 anni di distanza ci sia ancora il ricordo di queste figure che hanno contribuito a rendere il mondo un posto peggiore.

La biografia legata alle nostre responsabilità è enorme, sta solo alla nostra volontà farlo.

Nel rispetto di quelle sofferenze e di tutte le nostre responsabilità.

Valsabbin* Refrattar*

Nella foto: Donna Jugoslava poco prima di essere fucilata da soldati italiani.

Il giorno del ricordo

mercoledì, Febbraio 3rd, 2021

Come ogni anno il 10 febbraio ci troviamo a parlare del giorno del ricordo istituito nel 2004 dal governo Berlusconi II, su spinta della componente nazionalista di quel governo, con l’intento di commemorare le  vittime delle foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel dopoguerra.

Abbiamo già trattato l’argomento in numerosi articoli in parte raccolti nella dossier “Storia e memoria” al link https://lavallerefrattaria.noblogs.org/post/category/storia-e-memoria/confine-orientale/ e anche quest’anno abbiamo deciso di non fare mancare il nostro contributo.

Lo vogliamo fare non raccontando quello che è accaduto nel confine orientale ma ciò che è successo agli alleati del regime fascista, ai tedeschi nazisti.

La capitolazione della Germania nazista ha portato allo smembramento dei territori che la componevano, sia delle regioni più periferiche che della città di Berlino che allora fu divisa in 4 zone di influenza. Ma fu nei territori più lontani, per lo più annessi militarmente negli anni precedenti che avvenne la scorporazione più significativa e dove si verificarono le espulsioni più pesanti. Dalla Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Paesi Bassi , Romania solo per citarne alcuni  cominciò un incessante esodo che subì delle accelerazioni nel quinquennio successivo alla fine della guerra e che si stima interessò dai 12 ai 16 milioni di cittadini origine tedesca espulsa da quei territori e che comportò uno stillicidio di soprusi e violenze impartiti alla popolazione dai vari eserciti vincitori occupanti.

Senza dimenticarsi mai delle tragedie umane che una uccisione o l’esilio provocano vediamo come i numeri in Italia siano ben diversi; le ricerche dell’Irsec (Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia) e le interessanti pubblicazioni di numerosi studiosi delle Università friulane e non ci indicano come l’esodo, più o meno forzato, delle genti giuliane e dalmate si attesti attorno a 150-200mila persone e i morti trovati nelle foibe poche migliaia di persone, più probabilmente tre o quattro.

Per molti di loro potrebbe comunque trattarsi di un controesodo in considerazione delle politiche demografiche promosse da i governi regi dalla fine della prima guerra mondiale e finalizzate a italianizzare e di sostituire etnicamente quelle popolazioni che fino ad allora erano vissute in pace.

Ribadendo che dietro questi numeri ci sono vite e drammi e contestualizzando storicamente la situazione non possiamo non renderci conto di come gli esodi siano stati un fenomeno di proporzioni europee promosso dai governanti di turno con delle politiche mirate per garantire dei bacini elettorali etnicamente omogenei o per liberare delle aree ricche di materie prime o centrali rispetto a interessi economici o strategici. E parallelamente di come quei sistemi politici utilizzassero l’omicidio, più o meno preventivo, per garantirsi quei fini. E le uccisioni delle foibe, tra l’altro non ben identificabili anche perche furono ampiamente utilizzate per nascondere i propri crimini dai tedeschi e dai fascisti, devono essere lette in questo senso, certamente terribile, e non possono essere stigmatizzate a senso unico o peggio essere ingrandite a dismisura; non possiamo dimenticare il milione di morti di Gasparri, pari all’intera popolazione della Venezia Giulia o delle decine o centinaia di migliaia dello “storico” Paolo Mieli.

In Europa e in Germania questo aspetto l’hanno forse compreso meglio degli italiani. Vi potete immaginare la cancelleria Merkel che parla di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni tedesche? Ve la immaginate berciare di sciagura nazionale o delle terribili sofferenze senza proferire una parola sulle cause come hanno fatto gli ultimi due presidenti della repubblica italiana che con la stessa leggerezza sono passati dai bei discorsi a Sant’Anna di Stazzema a quelli a Basovizza? Parole pesanti come lapidi che di fatto avallano l’impianto voluto dall’estrema destra nazionalista che vuole imporre un’antistoria sulle foibe per equipararle ai crimini fascisti e nazisti.

Ovvio no. Per un semplice motivo, che i tedeschi i conti con la storia e con le proprie responsabilità forse li hanno fatti e hanno compreso che certi accadimenti non sono altro che effetti dati da delle cause ben precise. Forse hanno capito che il seme malato dell’ignoranza più o meno voluta può essere sconfitto con la consapevolezza, non certo con le leggi che rendono illegale il fascismo o il nazismo o che istituiscono un giorno di commemorazione e raccoglimento sia esso della memoria o del ricordo e con gli anticorpi che una società ha e che si crea combattendo con il nemico invisibile e sottile che sono le proprie responsabilità storiche.

Esodi e uccisioni sono i risultati dei calcoli politici, della difesa del potere istituzionale e sono i frutti amari dei regimi totalitari novecenteschi comunisti o fascisti e delle ideologie nazionaliste, patriarcali e militariste.

Le stesse portate avanti da chi oggi vorrebbe questo giorno eretto a monumento nazionale.

Valsabbin* Refrattar*

Foto:1942 eccidio Podhum Croazia dove il regio esercito italiano fucilò 91 civili, inviò ai campi di annientamento circa 800 persone e bruciò le loro 320 case.

I social network e l’angolo degli oratori

sabato, Gennaio 16th, 2021

 

In questi giorni, a seguito della “sommossa” di Washington, è montata la protesta per la chiusura del profilo Twitter dell’ex presidente degli Stati Uniti Trump. Molti hanno gridato al complotto, molti ad una dittatura molte sono state le reazioni in tutto il mondo.

Anche in Italia, nel settembre 2019, abbiamo assistito alla chiusura dei profili social della galassia neofascista e già allora era stato fantastico, nel senso etimologico del termine “suggestivamente insolito o irreale” sentire questi soggetti gridare alla censura, visto e considerato che, oggi, le politiche di stato contro la libertà di espressione sono promosse proprio da quei politici amici o affini a quell’area, dalla Polonia all’Ungheria, o che vogliono l’unione tra stato e chiesa come la Turchia. Ma anche da stati come l’impenetrabile Corea del Nord che lo scorso ottobre si vantava di avere 0 contagi, una muraglia al virus e alla libertà ma con un grande sistema sanitario.

Facendo un parallelo la censura applicata sotto le dittature novecentesche, sia fasciste che di ispirazione comunista, era caratterizzata da ordini diretti e precisi espressi dal potere centrale e applicata dalle sue diramazioni periferiche mentre ciò che è successo oggi o nel 2019 è stato deciso dai consigli di amministrazione dei vari social che, appellandosi alla propria politica societaria, hanno voluto così tutelare la propria immagine o meglio i propri interessi economici.

La censura ad orologeria che ha colpito Trump, ma anche molti altri, non è scattata nel momento più utile per sollevare le sorti della popolazione umana dall’abisso della disinformazione, ma è scattata quando l’utile dei vari social è stato messo in discussione, perché i vari Trump o tutti quelli che negli anni sono stati annichiliti non sono nuovi ad avere veicolato messaggi d’odio o di esclusione o le famigerate fake news. Una bella ipocrisia.

Quindi non c’è da stupirsi che queste aziende private abbiano difeso i loro interessi economici limitando chi col suo agire, col dire e con i post, ha scoraggiato gli investitori, come non c’è da stupirsi se Libero quotidiano non ospita Vauro o se il Manifesto non ospita Fiore. Tutti questi soggetti perseguono fini economici o politici che per ovvi motivi comportano una selezione delle informazioni da veicolare.

E se da un lato i fini di queste società sono chiari e non possiamo stupirci per queste scelte, non possiamo non aggiungere un elemento a questa riflessione. Ma davvero dobbiamo delegare la libertà di informazione ai social network arrendendoci così al dominio della tecnologia su di noi? Perché sono tante le persone che pensano, scrivono e elaborano idee, certo bisogna avere il tempo e la voglia di affrontare lo scoglio di una lettura che va oltre i 280 caratteri di un tweet o di una didascalia sotto un’immagine (per farvi capire questo paragrafetto vale una volta e mezza un tweet).

Non si può pensare che oscurando profili si possa limitare il propagarsi di certe idee, forse il problema non è chi promuove un messaggio ma di chi lo recepisce. Se una persona si mettesse ad Hyde Park a Londra sul gradino più alto dello Speakers’ Corner, l’angolo degli oratori, ad enunciare le sue teorie riportanti incesti tra alieni e esseri umani e venisse seguito da migliaia di persone, dovremmo farlo tacere o preoccuparci per il suo seguito?

Oggi l’angolo degli oratori si è trasferito nella dimensione metafisica dei social network dove tutti possono riversare le proprie vanità, le proprie idee ma anche la propaganda politica. Se ci pensate ormai le conferenze stampa, che erano i momenti in cui i politici dettavano la propria linea in pubblico e informavano i media, sono limitatissime, quello che oggi fanno è postare sui social e i vari media riprendono quei messaggi.

Messaggi che contengono di tutto, dai selfie coi gatti, alle sciacallate del momento ma anche le direttive politiche, gli slogan o i dettami di quelle che vengono definite teorie del complotto. I social oggi sono dei fantastici vespasiani con degli ampi archi e dei grandi specchi in cui è splendido mostrarsi, incensarsi e dare eco alle proprie idee ma che non possono in alcun essere considerati luoghi dove si formano le coscienze.

Togliere importanza ai social è centrale per abbattere l’idea che se ho un luogo dove posso esprimermi allora ho la libertà di espressione e di comprendere ciò che gli altri dicono. L’angolo degli oratori ne è l’esempio più lampante, perché non è facendo un parcheggio sopra quel parco che si può pensare di risolvere il problema delle masse che oggi credono nelle teorie degli incesti tra alieni e umani.

E ci sono davvero.

E a conclusione diciamo che il fascismo, il neofascismo e quelle ideologie sono un abominio, non tanto perché così è previsto da qualche legge o è scritto nella costituzione, ma perché sono l’essenza della privazione delle libertà tra cui quella di espressione, fondamento del loro esistere, e relegare quelle idee alle fogne è compito nostro e della nostra quotidianità, non certo di uno Zuckerberg di passaggio che, con l’ipocrisia tipica, a seconda dell’interesse economico del momento oscura loro qualche profilo social.

Come sempre l’agire è nostro.

Il nuovo decreto sicurezza 2: la questione migrante

martedì, Gennaio 5th, 2021

Prosegue con questo secondo scritto l’analisi del decreto legislativo 130/2020 dal titolo “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e sicurezza” approvato al senato lo scorso 18 dicembre dopo un lungo dibattimento che ha visto anche le classiche sceneggiate parlamentari tipiche del teatrino della politica e passato sotto il nome di nuovo decreto sicurezza.

In questo articolo concentreremo le valutazioni sulle norme riguardanti il tema immigrazione.

La loro analisi non può prescindere da una considerazione di fondo, fondamentale, che abbiamo già accennato nel precedente articolo. Questo nuovo decreto non va a scardinare l’impostazione voluta dalla destra che lega il tema immigrazione al tema sicurezza sdoganando così il legame migrante-criminale, ma la recepisce e la modifica in funzione della necessaria propaganda del momento.

Il tutto nel vacuo tentativo di rendere illegale e inumano ciò che è umano e naturale, migrare; nel 2019 dall’Italia sono emigrate 131mila persone, il 40% sotto i 35 anni. Numeri non confermati nel 2020, anno in cui gli spostamenti sono stati bloccati a causa del virus, ma che pensiamo possano riallinearsi appena ci si potrà nuovamente muovere, essendo presumibilmente mutate in peggio le cause che hanno portato a questo esodo.

Cosa differenzia questa umanità migrante da quella che proviene da altri paesi o che sta seguendo la rotta balcanica o cercando di attraversare il Mediterraneo?

Tanti aspetti differenziano questa umanità, ma uno è sostanziale: la prima si può spostare liberamente la seconda no, perché è priva o privata dei documenti, passaporti, visti e carte bollate, ed è su questo principio di legalità e su questa impalcatura burocratica che si fondano questi decreti e si formano le barriere impenetrabili e i drammi di chi, per necessità, si sposta. Non è difficile constatare come imprenditori pakistani, libici, afgani e provenienti dall’Africa possano tranquillamente arrivare in Europa su un comodo volo charter.

Analizzando gli articoli del decreto riscontriamo aspetti conflittuali con il precedente, per esempio è stato previsto il ripristino del rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, cancellato col precedente, che amplia la platea di chi potrà richiederlo e che assieme agli altri permessi previsti potrà essere convertito in permesso di lavoro subordinato. Toglie dalle mani del questore il potere di discrezionalità nella valutazione dei “seri motivi” che possono portare al rifiuto o revoca del permesso di soggiorno, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, indicando così che le questure non stessero seguendo questi obblighi?

Introduce inoltre la figura dei migranti climatici, importante valutazione concettuale, ma che denota una dissociazione dalla realtà che vuole l’emergenza climatica globale e non localizzata in determinate aree, generalmente a sud.

Viene ampliata la possibilità di vietare l’espulsione dal territorio italiano per quei migranti che rischiano di essere sottoposti a tortura o trattamento inumano e degradante nel proprio Paese, ed è un cortocircuito normativo che venga previsto questo divieto proprio in Italia dove, anche in mancanza di una legislazione sulla tortura o che ne limiti l’impunità, gli stessi trattamenti sono stati e vengano quotidianamente applicati dalle forze dell’ordine. Sarebbe interessante che ci spiegassero quale trattamento “umano” viene applicato in carcere.

Per quanto riguarda l’azione delle ong sono state cancellate le sanzioni amministrative e la confisca delle imbarcazioni previste dal precedente decreto, ma sono stati aggiunti dei paletti sulla possibilità di movimento in mare e sull’obbligo di concordare le operazioni di recupero con le autorità italiane, nel tentativo di riportare sotto un controllo stringente e sotto le logiche utilitaristiche l’azione di queste realtà che perseguono fini diversi.

Quindi analizzando gli articoli possiamo dire che le modifiche contenute nel testo, seppur agli occhi dei più parrebbero più umane, nella realtà risultano miopi e perfettamente nel solco tracciato da anni di politiche vergognose, non ci possiamo dimenticare i lager di Minniti in Libia. Uno specchietto per allodole per questi sinceri democratici che presi dalla frega per avere cancellato i decreti della destra (schizofrenia al pari dell’abolizione della povertà dei loro attuali alleati di governo) voltano lo sguardo a ciò che le loro politiche criminali hanno fatto.

Uno stillicidio di scempi e crimini, di violenze contro l’indole umana migrante, mai accettata come fatto naturale ma semplicemente ri-normata da questo decreto sicurezza.

Valsabbin* Refrattr*

Il nuovo decreto insicurezza

mercoledì, Dicembre 30th, 2020

Il nuovo decreto sicurezza e l’alienazione del sincero democratico.

Con questo articolo prosegue l’analisi delle politiche securitarie che in questi anni stanno segnando la vita legislativa italiana e in particolare con questo scritto ci vogliamo concentrare sul D.L. 130/2020 dal titolo “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione e sicurezza”, il nuovo decreto “sicurezza” approvato in senato lo scorso 18 dicembre e pubblicato in gazzetta ufficiale il giorno successivo.

“I decreti propaganda/Salvini non ci sono più” ha postato sui suoi social il segretario del partito democratico che così ha dato eco all’approvazione del testo; l’ennesima fake news in linea con la gattopardiana massima del “cambiare tutto per non cambiare niente”. Il testo è perfettamente allineato e schierato con quello precedente, non scardinando e non mettendo in discussione l’impostazione che vuole due temi diversi, sicurezza e immigrazione collegati nell’ abbraccio mortale concepito dalle menti razziste del precedente governo (per dovere di cronaca almeno per metà presente in questo).

In questo cortocircuito che ben rappresenta la pochezza di questa classe politica, interessante è l’analisi comunicativa conseguente la promulgazione; grande risalto mediatico è stato dato alla questione migrazioni per cui non sono mancati articoli, servizi tv e post, non un cenno però è stato fatto alla stretta repressiva in atto, in perfetta continuità con i precedenti decreti, perché è ciò che non dicono che deve preoccuparci non solo quello che passa sui media, sempre più e solo megafoni del regime democratico.

Sono sedici gli articoli di questo decreto che seguono il solco sempre più profondo tracciato dal precedente testo e che possiamo racchiudere in tre capitoli: sicurezza urbana, controllo carcerario e immigrazione. In questo articolo analizzeremo solo il primo.

La pubblica sicurezza, perfetto acronimo del controllo totale, viene allargata sempre più alle fasce povere e al dissenso, in particolare a quelle fasce che potenzialmente esasperate dalla crisi, ormai strutturale in questa economia malata terminale, potrebbero alzare o stanno alzando la testa.

Viene ampliato il daspo urbano, misura sperimentata nel mondo ultras e poi allargata e utilizzata per regolare ogni forma di attività non controllabile, che consiste nel divieto di accedere a locali o eventi pubblici o a manifestazioni sportive per un determinato periodo, anni solitamente. Questo decreto allarga l’azione del daspo anche a coloro che hanno riportato, negli ultimi 3 anni, denunce o condanne non definitive per questioni di spaccio effettuato in prossimità di punti “sensibili”, scuole, università o locali pubblici aperti al pubblico, praticamente ovunque. Una presunta pericolosità che può così essere definita arbitrariamente dalla questura o dalla prefettura di turno, elemento a nostro avviso direttamente collegabile all’impalcatura del codice Rocco approvato in piena epoca fascista e della strategia della prevenzione del dissenso, alla faccia del principio di innocenza fino a condanna definitiva.

E in attesa che l’Italia adotti una legislazione sulla tortura e sull’identificazione delle forze dell’ordine, oggi troppo spesso impunite per i loro innumerevoli soprusi, vengono inasprite le pene per coloro che risultano coinvolti in risse prevedendo che, nei casi di morte o lesioni personali, il solo fatto della partecipazione alla medesima risulti punibile con la reclusione da 6 mesi a 6 anni.

Nemmeno questa crisi ha portato ad una cancellazione del piano nazionale sgomberi o del reato di invasione di edifici ennesima riprova di quanto la povertà a loro faccia schifo; stessa cosa per il reato di blocco stradale, balzato alle cronache perché immediatamente applicato per le proteste dei pastori sardi e degli operatori della logistica, a significare da un lato che quel tipo di protesta fa davvero male a chi la subisce, forti sono i contraccolpi economici soprattutto delle aziende del comparto logistica sempre più attive in questo mondo sempre più tecnologico e orientato agli acquisti sulle piattaforme di e-commerce e dall’altro rende evidente il tentativo di riportare, attraverso questa spada di Damocle fatta di anni di galera e sanzioni pesantissime, sotto il controllo dei partiti o dei sindacati padronali quelle proteste spontanee.

E se nemmeno il daspo urbano, le multe e le varie forme di controllo preventivo riescono a fermare il dissenso ci penseranno i taser, la cui sperimentazione pare non avere un limite essendo estesa alla polizia locale delle città con più di 100mila abitanti. Una sperimentazione, neologismo che indica la quotidiana goccia di stricnina, attivata in poche città e che sarà destinata a essere strutturale nel distopico futuro, e forse presente, che pare profilarsi all’orizzonte.

Distratti dal tema migranti, stiamo assistendo ad un continuo assalto con armi convenzionali e non alla povertà, alle nostre libertà e al dissenso, l’ennesimo smacco di questa classe politica che ha completamente svenduto tutti i valori, tra cui l’umanità e la dignità.

Per questi sinceri democratici la sicurezza è fatta di polizia, impunità, controlli preventivi, repressione e taser e la nostra?

La nostra è fatta di libertà e per essere liberi è necessario dissentire e disobbedire.

Valsabbin* Refrattar*

 

 

D’Annunzio: Un nuovo brand

martedì, Novembre 10th, 2020

D’ANNUNZIO: UN NUOVO BRAND

Questo scritto vuole aggiungere un nuovo contributo alle analisi raccolte nella sezione “Storia e Memoria”, alla luce dell’uscita del film sugli ultimi anni di vita di Gabriele d’Annunzio “Il cattivo poeta”.

Il film è stato presentato il 5 settembre 2020 all’Aurum di Pescara, città natale di D’Annunzio, in occasione della esposizione de “La Carta del Carnaro” e che sarebbe dovuto uscire nelle sale cinematografiche il prossimo 12 novembre.

Due eventi non certo casuali, due ricorrenze centenarie, la firma della “Carta del Carnaro” e la sottoscrizione del trattato di Rapallo.

Il trattato di Rapallo fu l’accordo, conseguente al macello della prima guerra mondiale, del trattato di pace di Parigi e del trattato di Saint-Germain, con il quale il regno d’Italia Italia e il regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini delle rispettive sovranità.

Questo provocò l’immediata annessione al Regno d’Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara e, si stima, più di 800.000 ex sudditi dell’impero austro-ungarico si ritrovarono minoranza in un nuovo paese.

Innegabili furono le conseguenze di questo trattato che colpirono soprattutto le popolazioni non italiane.

Le abbiamo trattate nell’articolo “Le foibe”; la ghettizzazione, ad opera del regno d’Italia, della popolazione jugoslava passò per l’italianizzazione della toponomastica, dei cognomi, l’abolizione dell’insegnamento della lingua slovena nelle scuole, l’obbligo per gli insegnati di essere italiani e che degenerò, nel 1941, con l’invasione tedesca della Jugoslavia del 1941 e supportata dall’Italia fascista, con la circolare 3C che equiparava la popolazione civile inerme ai militari rendendola soggetta a rappresaglie, depredazioni e incendi di case e villaggi, esecuzioni sommarie e internamenti nei vari campi di eliminazione.

Una circolare che possiamo immaginare che strascichi abbia lasciato nelle memorie e non solo della popolazione civile jugoslava.

Noti sono i crimini e le discriminazioni, nota è la madre di queste disgrazie, la guerra, come è nota la strategia di bonifica etnica della regione.

Ma nonostante ciò lo scorso anno abbiamo visto accogliere in pompa magna dalle istituzioni, lacustri e non, la falange di Riccardo Gigante che così ha potuto raggiungere nel riposo eterno il suo amico D’Annunzio nel mausoleo del Vittoriale degli italiani.

Gigante che da sindaco di Fiume appoggiò tutte le politiche di italianizzazione forzata dell’area, e dal 1941, sostenne l’invasione della Jugoslavia. Figura che mise le basi per il perpetrarsi di quei crimini e che trovano conferma e appoggio nelle parole pronunciate da Mussolini, il 22 settembre 1920 a Pola: «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone […] credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

E se sul film non avendolo visto non possiamo esprimere un giudizio vogliamo con questo scritto evidenziare come troppo spesso realtà e fantasia si mischino e la storia, con le sue ricorrenze, venga troppo spesso presa a pretesto per fini diversi dalla sua analisi e divulgazione.

E se il film lo può fare per una mera questione commerciale, o almeno ci auguriamo possa essere solo così, la figura di D’Annunzio no. Dietro questa c’è molto di più e conferma ci viene dalla bocca dell’attuale sindaco di Pescara, Carlo Masci che in occasione della presentazione della Carta del Carnaro si è espresso così: ”D’Annunzio è un brand formidabile per Pescara che deve riconoscersi nella sua immagine. Molte città si definiscono dannunziane, ma c’è un’unica città in cui è nato e solo noi possiamo fregiarci del suo nome”.

Ma cosa c’è dietro questo brand? E cosa c’è da rispecchiarsi nell’immagine dell’autoproclamatosi vate?

C’è una cultura nazionalista, patriottica, sessista, guerrafondaia che tanti danni e dolori ha causato.

Dietro questa figura c’è un revisionismo storico, costante e incessante che mira ad inserire uno spirito identitario, oggi pienamente calato nella narrazione tossica che cancella le colpe e esalta le gesta, ad uso e consumo delle varie componenti nazionaliste istituzionali e non.

Uno scempio rispetto alla realtà, alle sofferenze patite, perché forse ciò che servirebbe è un’autocritica e un’attenta analisi, una presa di coscienza dei crimini commessi e l’accettazione che da ricordare non sono solo propri ma tutti, ovviamente da ricordare con rabbia. Aspetti che sarebbe davvero bello avessero una centralità non solo nella vita culturale ma anche nelle giornate come quella del 10 febbraio.

Ma si sa, un brand serve per far soldi o voti, non Cultura!

Valsabbin* Refrattar*