LA LETTERA DI ALFREDO
sabato, Marzo 4th, 2023
Questo scritto vuole fornire un’analisi su quel pensiero di sinistra legato alla retorica costituzionalista e incarnato perfettamente dal Pd. Un percorso che dalle origini all’attualità è sempre più cambiato, diventando a tratti più conservatore della destra. Ora con l’emergere della critica, sollevata da Cospito, al 41bis nel discorso pubblico, questa degenerazione si vede sempre più chiaramente.
A fronte della sproporzione della pena, che nemmeno per gli autori materiali dell’attentato di Capaci è stato formulato questo capo d’accusa, pochissime sono state le voci critiche che si sono levate, al di fuori della galassia anarchica.
Ed è nell’assenza totale di critica da parte della sinistra istituzionale che si è evidenziata questa deriva.
Le origini della sinistra erano radicate nelle lotte sociali che vedevano nella legalità del tempo una fonte di ingiustizia e quindi non la ritenevano legittima, quantomeno in alcuni aspetti; basti pensare alle lotte per la casa e la terra, al concetto di potere oppressione e libertà e a tutti quei temi sociali che hanno alimentato diverse lotte a partire dalle origini dell’era moderna e contemporanea. Quello di sinistra era un pensiero critico caratterizzato da una tensione verso l’ordine stabilito legalmente.
Col tempo questo approccio è cambiato, man mano che da lotta diretta si è trasformata in ricerca del potere istituzionale tramite le delega. La difesa dello stato (prima visto con sospetto in odore di fascio) si è fatta lampante già nel caso di Tangentopoli e da Berlusconi in poi si è visto anche con l’emergenza Covid, nell’invocare repressione per chi non seguiva i dettami statali.
Si è iniziato da lì ad invocare le manette per gli avversari politici anziché la libertà per i “compagni”.
Unico argomento della sinistra istituzionale: difendere le leggi e chi le applica, con l’ipocrita benedizione della frase: “nate dalla resistenza”.
Quindi quello che è successo negli anni è che il focus della sinistra, che prima era centrato sulle condizioni sociali che stanno all’origine di certi comportamenti, è passato ad essere quello del rispetto assoluto dell’ordine stabilito, riconoscendo come legittima solo l’azione prevista dalla legge.
Che cos’è il dissenso se non si può separare il concetto di legalità da quello di legittimità? Quanta forza toglie alla possibilità di opporsi nelle lotte sociali questo pensiero?
Il cambiamento sociale ridotto ai modi previsti dalla legge, lo insegna la storia, svuota di legittimità l’azione e i movimenti, portando come conseguenza il mantenimento dello status quo e l’affermazione dell’autoritarismo nella società. Lo stato diventa autoreferenziale.
Ieri come oggi i ricchi hanno in mano il potere politico e statale, mentre le genti la capacità di opporsi inceppando il normale scorrere del tempo riappropriandosi della spontanea capacità di agire e organizzarsi. se questa possibilità viene tolta, con l’aumento della repressione e la retorica della fiducia totale nello stato, la tirannide ne è il risultato.
I rappresentati delle classi subalterne sono piacevolmente incastrati nel meccanismo lobbistico democratico e le loro genti, votando, credono di essere esse stesse attrici del potere politico statale. Senza vedersi in contrapposizione al potere perdono ogni “possibilità contrattuale” perché si credono fautori dello stesso.
Questa sinistra si aggrappa alla costituzione, rivendicandola come Stalin fece con la Rivoluzione d’ottobre, per poter alzarsi moralmente sulla sua controparte di destra, in una sfida a chi è più ligio all’ordine dell’altro. Trasformando il “giogo democratico” in una corsa verso lo stato di polizia.
E se una azienda fa migliaia di vittime queste poco valgono se era tutto a norma di legge, mentre se uno gambizza un lobbista responsabile di un possibile ritorno del nucleare dopo l’ennesima catastrofe nucleare (vedi Fukushima) è un abominio per cui la motivazione non merita nemmeno di essere presa in considerazione. Sale un atteggiamento di indignazione compiacente del sistema repressivo, democratico, che trasforma la sinistra nel primo giudice, di ciò che lei stessa era.
Forse manca il coraggio di capire da che parte stare, aldilà dell’ordine costituito. Manca forse quella lucidità nell’opinione pubblica democratica, come nei loro rappresentanti, che permette di capire cosa significhi il monopolio della violenza e riconoscere e dove sta la violenza nella società.
Se in un fiume in piena o negli argini che lo costringono.
Non stupisce quindi che un regime carcerario finalizzato a annichilire qualsiasi pulsione umana, considerato tortura anche da organismi internazionali, venga considerato democraticamente valido se non addirittura un pilastro della società dell’ordine democratico appunto, pilastro della destra ma anche della sinistra che lega legalità e legittimità in un abbraccio mortale.
“Nessuno” sente la puzza di un sistema marcio con “l’arresto” di Messina Denaro, “tutti” credono alla poetica e fantomatica della riabilitazione del carcerato, “nessuno” si sente preso per il culo, “nessuno” crede che il 41 bis sia una vendetta, una vigliaccata senza utilità.
L’importante è difendere le istituzioni che ci garantiscono la democrazia a costo di sacrificare qualsiasi libertà.
Traghettaci oh sinistra verso la nuova campagna di Russia!
“Compagni”! A noi!
Ha suscitato grande clamore l’arresto di Matteo Messina Denaro capo dei capi della Cosa Nostra siciliana che avrebbe preso le redini dell’organizzazione dopo la cattura di Provenzano e Riina.
Sotto falso nome in cura per un tumore è stato sorpreso e fermato in una clinica palermitana e subito trasferito al carcere dell’Aquila, dove, nonostante le sue condizioni di salute forse la sua storia ha prevalso, è stato considerato idoneo al regime carcerario più duro, il famigerato 41 bis.
Il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario introdotta nel 1986 durante la “guerra alla mafia”, ed è stata istituita con molteplici finalità tra cui limitare le manifestazioni di dissenso all’interno delle carceri e favorire il sistema premiante di delazione, dissociazione e pentimento dei mafiosi.
È doveroso constatare che in quasi 40 anni dalla sua istituzione non ha certamente contenuto i fenomeni per cui è stata propagandata, diversamente forse non si parlerebbe con così tanta enfasi dell’arresto di Messina Denaro, ma anzi come tutte le misure repressive introdotte con carattere temporaneo è finita per diventare strutturale e ha trovato negli anni un’applicazione maggiore.
Per la prima volta dalla sua istituzione, lo scorso ottobre, è stata affibbiata ad un anarchico, Alfredo Cospito già da 10 anni in carcere (di cui sei trascorsi in massima sicurezza) per avere gambizzato nel 2012 Roberto Adinolfi lobbista e amministratore di Ansaldo nucleare che da anni, in barba ai numerosi referendum sul tema, portava avanti l’agenda nucleare in Italia.
Durante la carcerazione Cospito è stato dapprima accusato di avere piazzato due ordigni esplosivi fuori da una caserma dei carabinieri a Fossano (Cuneo) nel 2006 e di essere “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo” (parlare di capo in un’organizzazione anarchica fa già ridere se non fosse tragico per le sue conseguenze) e poi condannato nei primi due gradi di giudizio per strage, che non ha provocato né morti né feriti ma solo dei danneggiamenti.
Lo scorso mese di luglio la Cassazione ha modificato il capo di imputazione condannandolo a strage contro la sicurezza dello Stato, che prevede tra l’altro il 41 bis e l’ergastolo ostativo il “fine pena mai” trattato anche in altri nostri scritti https://lavallerefrattaria.noblogs.org/post/category/gabbie-e-liberta/ .
Davanti a questa sproporzione, nemmeno per l’attentato di Capaci è stato ipotizzato questo reato, Alfredo Cospito e Anna Beniamino dal carcere di Rebibbia (coimputata e che come Cospito mai ha rivendicato l’azione di Fossano) hanno intrapreso uno sciopero della fame contro questa violenza.
Cospito è da dieci anni nelle mani dello stato, e da ottobre è sottoposto al carcere duro (come se ne esistesse uno morbido) senza potere beneficiare in alcun modo dei benefici penitenziari previsti per gli altri regimi detentivi.
Egli è senza legami con l’esterno, la posta è sottoposta a censura (quando arriva), d’altronde un capo degli anarchici non ravveduto è un problema, con l’ora d’aria limitata in un cubicolo di cemento e pure con restrizioni riguardanti la socialità con gli altri detenuti; immagino che il suo esterno sia nella mente, nel cuore e nei ricordi e a volte negli incontri col proprio avvocato.
Nemmeno le foto dei genitori morti può tenere nella sua cella, la burocrazia da questo punto di vista è tremenda e le vieta in quanto non è stato richiesto il riconoscimento formale dell’identità dei genitori da parte del sindaco del paese d’origine.
Di fronte a questa assenza di umanità viene da pensare quale sia l’intento di chi ha scritto certe norme..
Alfredo da quasi 100 giorni sta portando avanti una battaglia che sarà a suo dire “fino all’ultimo respiro” che pare purtroppo ogni giorno sempre più vicino, o almeno lo desumiamo dalle parole dell’avvocato che, riferendosi alle sue condizioni di salute, pochi giorni fa affermava: “siamo sull’orlo del precipizio”.
In questa società benaltrista, dove pur di non affrontare un problema si fa un continuo richiamo ad altri problemi sempre ben più pressanti del primo e che puntualmente non vengono mai trattati, un uomo, con la sua storia, è rinchiuso tra 4 mura.
Un uomo tombato che si vorrebbe morto, almeno dal punto di vista intellettuale, ma vivo, sottoposto ad un trattamento ingiusto e inumano, pensato per annichilire e svilire e per svuotare l’uomo di qualsiasi pulsione di libertà.
Un uomo vivo che sta mettendo la sua vita in pericolo, per ricordarci tra le tante cose quanto il regime democratico sia nella sua struttura fragile, ipocrita, violento e sottomesso ai più bassi istinti umani e quanto sia compito di tutti mantenere viva l’idea innata di giustizia e libertà che non troviamo espresse nelle carte costituzionali.
Un uomo vivo che col suo esempio, col suo sacrificio, sta mandando in soffitta qualsiasi idea di finalità rieducativa della pena mettendo in discussione l’esistenza stessa del sistema detentivo con tutte le sue insopportabili falsità.
Un uomo vivo, sepolto è ben altro.
Dopo lo stucchevole e vuoto teatrino della campagna elettorale, che ha visto i diversi schieramenti impegnati in un simulato scontro, si è arrivati all’insediamento del primo governo con le più profonde radici nell’estrema destra italiana, definito dai più sovranista e composto dall’unica opposizione e da due partiti che in questi anni sono sempre stati filogovernativi.
Sulle prime lo spauracchio fascista è stato agitato proprio da quei partiti, Pd in testa, che negli esecutivi “dei migliori” e di unità nazionale hanno voluto, sostenuto e approvato le peggiori leggi incentrate sulla discriminazione, sulla segregazione e sull’obbedienza premiante proprio analoghe a quelle dei più noti anni del primo novecento.
Proseguendo, ciò che viene definito centro-sinistra, ossimoro nel merito ma perfetta etimologia dell’incesto ideale, si è arroccato sulle solite posizioni autoreferenziali mostrando il trofeo delle “battaglie” sui diritti sociali e lasciando il corpo del morto fatto di lavoro, salute e libertà ben nascosto.
Analizzando quelle che possono essere considerate le diversità tra un prima e il dopo al di là di un linguaggio di cortesia, per rispettare la forma non certo i contenuti, i due periodi appaiono in assoluta continuità.
Il disprezzo della vita umana oggi è caratterizzato dal lessico della prima nota ministeriale che parla di “carico residuale” riferito alle persone migranti trattenute sulla nave e ieri è stato rappresentato dall’accordo siglato tra il ministro dell’interno italiano Minniti (Pd) e il Primo ministro libico Fayez al-Sarraj per la gestione dei flussi migratori e che già nel 2017 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani lo ha giudicato “disumano”, avendo accertato che nei centri di detenzione per i migranti presenti in Libia (leggasi lager) si commettono ordinariamente atti di tortura e altre atrocità.
La continuità la possiamo udire nei venti di guerra provenienti da est, e la riscontriamo negli atteggiamenti di chi, ieri come oggi, sempre tenendo in alto il vessillo della difesa della democrazia e senza alcun passaggio parlamentare approva l’invio di armi e munizionamenti ai nazionalisti ucraini.
È l’emergenza dicono, è la guerra, nulla di nuovo si dirà se non che questa pietas esplode di incoerenza e di ipocrisia nei confronti di chi le bombe in testa le prende dal 2014 senza avere alcun appoggio internazionale e con la sola colpa di essere nel posto sbagliato e di chi oggi le prende meglio le riceve e che rischia nella quotidianità di essere vittima di questo fuoco “amico”.
Per questi pochi esempi, e se ne potrebbero fare molti di più, le ricette di questo governo cosiddetto di destra appaiono in perfetta continuità con i precedenti, pure per quelle misure emergenziali adottate durante il periodo pandemico, e che oggi lentamente vediamo assimilate dalla società.
Misure che oggi sono state completate con delle leggi ad-hoc per i renitenti e i resistenti, applicandole con la solita assenza di discrimine prima affibbiando reati associativi al sindacalismo di base e in ultimo, sulla base di un processo farsa, destinando al regime del 41bis l’anarchico Cospito colpevole di coerenza e dallo scorso ottobre in sciopero della fame per protestare contro quel regime volto all’annientamento delle più alte pulsioni umane.
Il tintinnio della campanella della finta alternanza che riempie le orecchie, gli occhi, il cuore e la mente dell’homo democraticvs, soddisfatto nel voto avendo così svolto il proprio dovere di buon cittadino, non potrà mai essere la musica che accompagna la vita di chi in quell’ora d’aria concessa fatica a trovare la propria boccata d’ossigeno.
La reazione lavora unita e compatta per annichilire qualsiasi forma di dissenso.
Loro in continuità con la repressione, noi come sempre per la Libertà.
Nel democratico ordinamento italiano ci sono, oltre a retaggi della dittatura fascista (vedi codice Rocco), una serie di attrezzi liberticidi, inizialmente pensati come provvisori ed emergenziali, ma che sono rimasti, accumulandosi e sovrapponendosi col passare del tempo. In barba ad ogni supposto principio etico.
I più cruenti sono l’ergastolo ostativo, l’ostatività e la 41 bis.
L’ergastolo dura tecnicamente massimo 30 anni. Esiste però l’ergastolo ostativo che diventa un fine pena mai. Esci da morto, nel terribile burocratese fine pena il 99/99/9999.
L’ostatività non si applica solo all’ergastolo ma anche a altre sentenze minori. Fondamentalmente anche per un reato banale, una condanna a breve termine, l’autorità può decidere discrezionalmente di non farti più accedere ad alcun “beneficio” penitenziario in barba ad ogni supposto diritto.
Nel carcere ostativo ci sono persone che per raggiungere l’Europa in barca si son trovate per sbaglio al timone (qualcuno doveva pur farlo) e sono state accusate di tratta e rinchiuse con l’ostativo e qualcuno addirittura al 41bis. Un abominio ingiustificabile.
Nell’ostatività generalmente vale il principio che bisogna dare informazioni e queste devono essere ritenute utili per uscire dal vortice. Se una persona, o perché non ne ha o perché non ne vuole dare (per non mettere qualcun altro al suo posto o in pericolo gli affetti) rischia di non uscire più.
Con l’infamia si può uscire. Sappiamo appunto che è fuori chi ha sciolto il famoso bambino nell’acido.
Il 41 bis invece è una manovra che sempre si basa sul principio ostativo: per interromperlo devi fare ammenda riconosciuta o una delazione utile. Questo inizia con 4 anni e ogni 2 viene valutato.
E’ pura ritorsione.
Si è sottoterra in una piccola stanza senza più informazioni dal mondo esterno, ne tue notizie usciranno più, tutto è al minimo e fatto per opprimere.
Se l’avvocato trasmette informazioni su di lui in pubblico è radiato dall’albo. Si vive in una stanza angusta, non si può leggere quel che vuole e non si può comunicare con nessuno. Si ha un ora d’aria in un buco profondo 7 metri, con una rete che copre il cielo.
Viene impedito il suicidio, ed essendo costantemente controllati, i rinchiusi sono privati di ogni strumento per tentarlo. La luce del sole non la vedono più e il senso del passare del tempo si perde. Si è come chiusi in una bara aspettando la morte.
Da chi l’ha conosciuto appunto si mostra chiara l’ipocrisia di questo trattamento, che è peggiore della pena di morte.
Chi ha sparato sulla folla a Macerata, tra non molto uscirà e mai gli è stato applicato il 41bis. Questo perché comunque se l’è presa coi più deboli e non ha minacciato le istituzioni.
Alfredo Cospito invece ha sparato nelle gambe a un delegato di una società che, nonostante il disastro di Fukushima, fa lobbying per tornare al nucleare.
A lui nessuna pietà, un eretico che non segue le gerarchie imposte, tramite un processo “farsa” gli hanno attribuito un’altra azione, un petardo che senza fare male a nessuno, è stato messo, contro una scuola di carabinieri.
Lui rivendica i suoi atti, e questa oltre all’assenza di prove non l’ha mai rivendicata. Ma è stato comunque condannato su pressione della D.N.A.A.*. Chi difenderà mai pubblicamente un simile eretico?
15 anni per il primo processo e poi ergastolo, forse fine pena mai. Ed ora visto che nel carcere speciale, comunque, esprimeva il suo pensiero, un pensiero comunque integro, hanno deciso di azzittirlo spedendolo alla 41bis.
A lui è rimasto solo il suo corpo per portare avanti una lotta, ed ora è in sciopero della fame contro questa barbarità. Deciso ad arrivare fino alla fine.
Che la libertà torni ad essere un faro e che giustizialismo e legalitarismo smettano di traghettare la società verso antri sempre più bui.
41 bis è TORTURA
*La D.N.A.A. è una specie di super polizia dal giudizio sacro. Chi ci finisce nel mirino ha poche possibilità. Bastano piccoli reati o amicizie “sbagliate” per essere accusarti di collusione con relativa ostatività. Il suo giudizio influenza i processi.
È stata pensata per contrastare la mafia, ma poi estesa a qualsiasi cosa possa essere suppostamente ritenuta una minaccia allo stato. Per capire quanto è pulita questa organizzazione basta capire chi l’ha istituita: Andreotti.
E’ di pochi giorni fa la notizia dell’emissione dei mandati di cattura e del fermo in Francia di una decina di appartenenti ad alcune delle realtà rivoluzionarie degli anni 70 la rifugiatisi da decenni.
Questi militanti conducevano vite ordinarie e alla luce del sole concesse da quella che è passata alla storia come la “Dottrina Mitterrand”che dalla metà degli anni 80 ha garantito l’asilo politico ai rifugiati d’oltralpe per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica. Lo stato francese al tempo ritenne che sia le conduzioni dei processi e che le pene applicate dal sistema giuridico italiano ma anche le condizioni carcerarie non fossero compatibili con i principi dello stato di diritto francese. Inoltre considerò questa sorta di protezione anche in virtù del fatto che se si fosse concesso l’espatrio queste persone non avrebbero avuto diritto ad un nuovo processo ma sarebbero state incarcerare per scontare le pene affibbiate dai processi condotti in contumacia, spesso senza avvocati difensori.
Una critica in primis al sistema che già allora era considerato il tritacarne che anche oggi è, certificato se mai ce ne fosse ancora bisogno dalla recente condanna della corte dei diritti dell’uomo al regime di ergastolo ostativo, all’accanimento di buona parte della magistratura ben orientata alla repressione e alle vergognose e criminali condizioni di sovrappopolamento e di gestione delle carceri italiane.
La dottrina Mitterrand era stata messa in discussione già nel 2004 dal consiglio di stato francese, massimo organo giurisdizionale amministrativo e consultivo della repubblica francese e poi da una sentenza della corte europea e ciò ha avuto come risultato numerosi arresti tra cui questi ultimi.
Queste valutazioni di principio sono molto pericolose, togliere l’appoggio e lo spazio d’azione per chi non intende uniformarsi alla violenza degli argini democratici e che così faticherà sempre più a trovare protezione o solidarietà anche a livello giuridico è un vulnus dei principi basilari della giustizia.
Impedire ad uno stato di esprimere un giudizio e prendere decisioni basate su un’analisi del merito del sistema giuridico di un’altro stato è un pericoloso precedente. Ed è proprio la schizofrenica dicotomia della corte europea dei diritti dell’uomo che deve farci riflettere; da un lato condanna l’Italia per il suo sistema giustizialista e dall’altro permette che vengano arrestati e condotti a scontare delle pene attribuite proprio dalle leggi poco prima condannate ci deve far riflettere sul ruolo di questi organismi, sul senso reale di giustizia e sulla vendetta applicata dallo stato.
Una vendetta violenta ben rappresentata da quei sadici cosplayer (indossatori di costumi) pronti ad azzannare alla gola e mostrare a reti unificate la bestia catturata come è accaduto per Battisti quando gli allora ministri dell’interno e della giustizia si sono presentati fuori dall’aereo vestiti con l’uniforme della polizia e della polizia penitenziaria privando il prigioniero di quelle garanzie che lo stato e i suoi servitori dovrebbero per primi dare.
Il tutto a decenni da quei fatti, da quei processi e da quel ciclo, da quel percorso politico e rivoluzionario che ha visto lo stato vincere utilizzando però le peggiori armi che di giustizia non avevano nemmeno l’ombra.
Non dimentichiamo che molte e molti latitanti o beneficiari di asilo politico sono dovuti fuggire in Francia per dei reati di opinione, per le condannate subite come mandanti morali e non materiali di certi fatti. Ci deve fare riflettere il filo rosso che lega la necessità di togliere quelle dimensioni di dissenso e lo spazio di protezione per estendere al massimo la giustizia del manganello troppo spesso preventiva.
Per la digos friulana denunciare pubblicamente la gestione del covid nelle carceri ed esprimere solidarietà ai detenuti in rivolta o solidarizzare con le compagne e i compagni inquisiti è sufficiente per aprire le indagini per oltraggio e istigazione a delinquere, un abominio che anche un sincero democratico dovrebbe non tollerare perché l’avvicinamento agli psico-reati di orwelliana memoria pare prossimo.
Già il giorno successivo gli arresti i prigionieri sono stati tutti scarcerati in regime di libertà vigilata in attesa delle varie pronunciazioni per l’estradizione che non verranno pare entro 2 anni.
A 40 anni di distanza i conti con la storia non si cancellano sbattendo il mostro in prima pagina, ma analizzando le responsabilità di tutti i soggetti di questa vicenda soprattutto dello statopartendo dagli anni di politiche e leggi inumane che dagli anni ’70 hanno reso e rendono il sistema giuridico e carcerario classista, torturatore e realmente terrorista.
Pernice Nera
Con questo terzo scritto siamo giunti al termine del percorso e di avvicinamento all’anniversario delle rivolte scoppiate l’8 marzo dello scorso anno in numerose carceri italiane e che hanno avuto come triste epilogo l’uccisione di 13 uomini e numerosissimi soprusi.
Ad un anno esatto è forse giusto fare il punto di una situazione, molti sono stati i mesi di silenzi e omissioni dietro quelle violenze, una lunga ricerca che ha richiesto giorni e giorni solo per conoscere i nomi dei morti, e che oggi sono state in parte portate alle cronache grazie anche ad un servizio di Report andato in onda sulla terza rete lo scorso 18 gennaio.
Un servizio che ha aperto uno squarcio rispetto alle violenze e depistaggi degli agenti penitenziari avvenute durante e dopo le rivolte che, per chi segue la situazione carceri, sanno essere purtroppo strutturali.
Il reportage conteneva numerose interviste e testimonianze, dai famigliari agli amministratori delle carceri, e molti spaccati di quel microcosmo di cui è composto il sistema carcerario, tra cui l’intervista al segretario Donato Capece del sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) che incalzato dalle domande sulle violenze ha ribadito il loro agire non cristiano “la reazione è umana perché, se, non è che qui siamo cappellani che prendiamo uno schiaffo e rivolgiamo l’altra guancia come dice il vangelo” e ha candidamente ammesso: “secondo lei potevamo noi usare violenza quando sappiamo che ci sono le videocamere che registrano tutto?”.
Ovviamente sì, per l’impunità da sempre garantita dal cancro dello spirito di corpo e per i processi per tortura che vedono coinvolti decine di questi perfetti prototipi di servitori dello stato.
Sindacati sempre pronti ad denunciare gli abusi, più o meno reali, ma mai ad ammettere le proprie responsabilità; non possiamo dimenticare i 5 minuti di applausi dei delegati del Sap (altro sindacato poliziesco) in “solidarietà” agli agenti condannati in via definitiva per l’uccisione o meglio il massacro del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi.
E in questo clima, esatto spaccato del sistema carcere, si è innestato il virus che non ha fatto altro che fungere da detonatore in questa situazione portata allo stremo e dalle rivolte si è subito giunti ai pestaggi, ai trasferimenti forzati, sembra ormai certo che anche delle persone poi morte trasferite in fretta e furia seppur in fin di vita, e all’isolamento con l’esterno sempre più duro.
Ma poniamo il fatto che questi uomini non siano davvero morti per le botte ma per l’abuso di farmaci. Come si può pensare che il carcere stia assolvendo ai proprio fini rieducativi e di reinserimento nella società (intendiamoci, la carcerazione resta abominevole e inumana in ogni caso) di queste persone che da mesi e mesi sono private delle libertà e sono sotto il diretto e assoluto controllo dello stato la cui prima reazione ad una modifica di quella la situazione è correre ad assumere farmaci?
E non farmaci qualsiasi, molte morti sono state imputate all’abuso di metadone, farmaco utilizzato come palliativo dell’eroina utilizzato nei percorsi di disintossicazione e forse palliativo anche per i bisogni indotti dal sistematico uso di psicofarmaci.
La risposta è ovvia: il carcere è morte per sua stessa essenza e natura, come lo sono quelle unità che fanno dello spirito di corpo e della difesa ad oltranza delle proprie violenze il fondamento del loro agire.
Fortunatamente non c’è solo report che ha raccontato questi fatti. Fin dai primi momenti famigliari e solidali esterni al carcere hanno cercato di fare uscire quelle grida di dolore e sofferenza. I resoconti dei pestaggi dei perfetti servitori dello stato che travisati hanno massacrato chi chiedeva di non spezzare il legame che li tiene in vita, con l’esterno e con i propri famigliari e amiche e amici, sono stati numerosi e in molti/e abbiamo potuto sapere cosa stava succedendo.
Queste persone hanno da sempre denunciato le violenze, le mancanze, le omissioni di soccorso e la natura meramente costrittiva insite in questo sistema, l’uso a tappeto di psicofarmaci per annichilire gli animi e placare sul nascere qualsiasi ribellione, la disumanità dell’ergastolo e delle pene ostative, un quotidiano spaccato, un quadro sconfortante che certifica il sistema malato che vede oggi numerosi processi per tortura e che rende il carcere, di fatto, privo di qualsiasi fine che le istituzioni democratiche hanno deciso di attribuirgli.
La mitologia greca vuole che dallo scrigno di Pandora uscirono tutti i mali che oggi affliggono l’umanità e che senza la speranza resero il mondo un luogo inospitale. Questa era rimasta intrappolata nel vaso e la curiosità di Pandora facendoglielo riaprire permise che questa si liberasse.
La speranza che da faro oggi ci anima e ci guida in questa notte buia.
Pernice Nera
Prosegue con questo secondo scritto l’analisi del sistema carcerario italiano, un percorso di avvicinamento all’8 marzo, giorno di lotta trans femminista e triste anniversario delle rivolte scoppiate in moltissime carceri italiane un anno fa.
Dopo l’analisi iniziale riguardante il malessere dato dal sovraffollamento che acuito dal covid ha esasperato la situazione provocando le durissime proteste dello scorso anno, con questo scritto ci contreremo su un aspetto importante del carcere, la recidiva.
Al 2018, secondo i dati del ministero della giustizia, la recidiva per i reclusi in Italia era del 68% circa, molto più alta della media europea, con picchi vicini all’80% per quelle città dove la microcriminalità è più presente, mentre per i prigionieri affidati a misure alternative questa scendeva di poco sotto al 20%.
Purtroppo i reati per cui la recidiva è più presente non sono elencati, possiamo immaginare come la detenzione o lo spaccio di sostanze stupefacenti e la permanenza sul suolo italiano senza i documenti necessari siano tra i più comuni e tra quelli con più alta recidività.
La storia recente ci insegna che basta una legge approvata dal parlamento per essere considerati criminali o innocenti, quindi il dato è interessante ma andrebbe accompagnato dal dettaglio per poterlo valutare nel suo complesso.
Va da se che il parallelo è piuttosto inclemente, la domanda che anche il più giustizialista si deve porre è se il carcere stia davvero assolvendo alla sua funzione di riabilitativa e reinserimento o sia meramente alla parte costrittiva e punitiva?
La domanda è retorica, lo confermano i detenuti che da dentro ci dicono quanto sia facile avere prescritta una terapia a base di psicofarmaci e quanto sia difficile avere una tachipirina o un colloquio e lo attestano le relazioni, non solo quelle indipendenti ma anche quelle ministeriali.
Se analizziamo poi i costi di questo sistema (nel 2019 circa 2,9 miliardi di euro) vediamo come quasi l’80% della spesa sia impiegata per il personale e ciò potrebbe far pensare che i detenuti siano seguiti; nulla di più falso; abbiamo assistito in questi anni ad una costante ed incessante diminuzioni del personale specializzato sia per il reinserimento che per il supporto psicologico o umano all’interno delle mura.
Alla carenza di personale denunciata quasi giornalmente dai numerosi sindacati di polizia penitenziaria assistiamo parallelamente alla scomparsa di certe figure importanti per i detenuti (ad esempio medici o responsabili dei laboratori) e alla diminuzione della specializzazione del personale e ciò dovrebbe corrispondere ad una diminuzione della spesa ma così non è, anzi tira sempre di più la coperta corta chi già sta al caldo,d’altronde nulla di diverso ci si può aspettare dal tipico atteggiamento parassitario di queste le lobby corporative.
Si aggiunte inoltre che da parte loro non è pervenuta nessuna parola di denuncia riferita ai dieci procedimenti penali per gli episodi di tortura che vedono implicati agenti della polizia penitenziaria, alcuni per le rivolte dello scorso marzo e alcuni per episodi precedenti.
Recidiva, libertà e supporto dei detenuti sono un tema unico quando si analizza la situazione carceraria. E se in medicina la recidiva è il riacutizzarsi di una malattia in via di guarigione o apparentemente già guarita, nel carcere è la misura con cui il sistema calcola, se mai ce ne fosse un’ulteriore bisogno, il proprio fallimento.
Al prossimo articolo.
Pernice Nera
Fonti:
Rapporti 2019-2020 Associazione Antigone
Dati statistici ministero giustizia
A quasi un anno di distanza dalle rivolte carcerarie scoppiate lungo tutto lo stivale, che hanno avuto come triste epilogo la morte di 13 uomini e episodi di violenze poliziesche su cui sta indagando al magistratura, abbiamo deciso di proporre alcune riflessioni sul tema carceri e che verranno strutturate attraverso 3 scritti.
Il fine è quello di fornire un quadro generale del sistema carcerario italiano e un approfondimento delle rivolte dello scorso 8 marzo e della situazione Covid che ha acuito e acutizzato il problema strutturale delle situazione carceraria.
La direzione di questo sistema è in mano al Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria istituito nel 1990 con compiti di gestione amministrativa del personale e dei beni della amministrazione penitenziaria, relativi alla esecuzione delle misure cautelari, delle pene e delle misure di sicurezza detentive e previsti dalle leggi per il trattamento dei detenuti e degli internati.
Dal Dap dipendono quindi le varie forze e unità speciale deputate al controllo dei prigionieri il cui numero è disponibile dai report disponibili nella sezione statistica e pubblicati mensilmente sul sito del Ministero della Giustizia. Da questi apprendiamo che a fronte di una capienza regolamentare di 50551 posti gli internati totali sono 53329 di cui 17691 stranieri e 2250 donne a cui vanno aggiunti circa 30000 che stanno scontando la pena fuori dal carcere, ai domiciliari o in specifiche strutture. Una situazione di sovraffollamento strutturale anche se in lentissima attenuazione basti pensare che a fine 2019 i detenuti erano circa 61000 ma comunque ben lontana da livelli dignitosi, se mai possano essercene.
Dei carcerati di origine straniera, troviamo 5790 europei, 9261 africani, 1311 asiatici, 964 americani e 18 apolidi o nativi in altri luoghi del mondo.
Il numero dei posti è calcolato sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri,ma il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato. Quindi il regime di deroga è strutturale.
In queste condizioni di sovraffollamento le restrizioni dovute alla pandemia hanno trovato immediata applicazione. Il Dpcm del 3 marzo 2020 ha tolto la possibilità ai prigionieri di effettuare i colloqui con i famigliari e l’unica interfaccia con l’esterno e le informazioni legate al Covid è stata la televisione, che da allora ci ha bombardato quotidianamente.
Ma fosse solo questo, con la scusa del pandemia le varie amministrazioni penitenziarie hanno avuto carta bianca per togliere le piccole libertà personali e numerose sono state le segnalazioni di divieto anche per i colloqui telefonici sia con i famigliari che con i propri legali. (tutte poi confermate dai legali).
La situazione è quindi diventata esplosiva, isolati, sovraffollati e terrorizzati i prigionieri si sono ribellati e la reazione è stata terribile, lo scenario che si prospetta ci parla di violenze, torture e privazioni di una sospensione della libertà umane al pari dei fatti del G8 di Genova.
Provate ad immaginare alla condizione dei detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli che reclude 2300 prigionieri (pari a più di uno dei nostri paesi) su una capienza di 1650 posti più del 42% , senza informazioni, senza tutele e senza la possibilità di comunicare con l’esterno?
C’è chi di fronte a questa situazione ha prospettato la costruzione di carceri, forse spinto dalle lobby del cemento sempre pronte a lucrare in queste situazioni, così da garantire una detenzione “giusta e dignitosa”.
Qualcuno ha proposto di farle private, su modello americano dove in quelle strutture è attuato un imprigionamento di massa forse neanche paragonabile al sistema stalinista, con più di 2,25 milioni di persone recluse, 4,8 milioni in libertà vigilata a si aggiungono 5 milioni di ex detenuti che hanno perso il diritto di voto.
Un sistema gestito per buona parte da privati che sappiamo quali priorità e quali interessi vogliano difendere e tra la rieducazione e il reinserimento nella vita extracarceraria e la recidiva che ne garantirebbe un profitto immaginiamo bene da che parte stiano.
Lo sappiamo bene perché a loro abbiamo già delegato l’ambiente e la salute con i risultati che ben conosciamo, e delegare anche la vita di queste persone recluse sarebbe solo la ciliegina sulla torta di questo sistema già assassino.
Al prossimo articolo.
Pernice Nera
Fonti:
Dati statistici ministero giustizia
Questo articolo è stato scritto d’impeto mentre si stanno ultimando gli articoli per il triste anniversario delle rivolte carcerarie scoppiate lo scorso 8 marzo in tutta Italia.
La notizia della morte di Raffaele Cutolo non è giunta d’improvviso, le condizioni di salute erano note da tempo, ma è stata immediatamente rilanciata da tutti i media nazionali. Per chi non lo conoscesse Raffaele Cutolo è stato uno dei principali protagonisti delle lotte di potere all’interno dell’universo camorristico degli anni ’80 e ’90 e di numerose oscure vicende italiane.
Una breve biografia: Cutolo nasce a Ottaviano nel 1941, a 22 anni viene condannato all’ergastolo, poi trasformato a 24 anni, per l’omicidio di un giovane al termine di una rissa. Scarcerato nel 1970 per decorrenza dei termini quando gli viene confermata la condanna si rende latitante, breve, fino al marzo 1971. Rimane nel carcere di Poggioreale fino al 1977 quando gli viene riconosciuta l’infermità mentale e viene recluso in un ospedale psichiatrico dal quale evade e resta libero da febbraio 1978 a maggio 1979.
Nuovamente arrestato da allora è recluso prima nelle sezioni di massima sicurezza poi, da quando è stato istituito, in regime di 41 bis; non si è mai pentito né dissociato e non ha mai voluto collaborare con la magistratura.
Solo negli ultimi anni il suo avvocato ha inoltrato delle richieste di scarcerazione per i gravi motivi di salute che lo affliggevano e l’ultima, 3 giorni prima di morire, conteneva l’istanza di attenuazione del regime detentivo, ma il giudice se per le prime ha sempre risposto negativamente per questa non l’aveva ancora presa in considerazione. Pare che pochi giorni prima della dipartita fosse arrivato a pesare 40 chili.
E così è morto la sera di mercoledì 17 febbraio mentre la moglie stava attendendo il permesso per andarlo a trovare all’ospedale di Parma dove si trovava degente da diversi mesi.
Lo scorso febbraio Cutolo è stato ricoverato per problemi respiratori ed è stato dimesso ad aprile. Di fronte alla richiesta di scarcerazione il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva sottolineato, a giugno 2020, come le sue condizioni fossero compatibili con la detenzione, quasi elogiando l’utilità dell’isolamento del regime di 41 bis nel contenimento e nella prevenzione della diffusione del virus e ribadendo quanto la sua pericolosità fosse ancora alta: “Nonostante l’età e la perdurante detenzione rappresenta un “simbolo” per gruppi criminali”, simbolo per la nuova camorra organizzata sciolta da anni i cui membri se non dissociati o pentiti sono morti.
Sempre lo scorso anno il suo nome è tornato alla cronaca quando è stato inserito nelle liste dei possibili detenuti scarcerabili per l’emergenza pandemica, fatto che aveva creato sdegno su molti giornali.
Di ciò che ha fatto o di ciò che hanno stabilito le sentenze della magistratura non ce ne possiamo occupare in questo articolo, vogliamo però aggiungere un piccola riflessione sul tema carcere e sull’uomo che in regime di isolamento ha, secondo le verità giudiziarie, costituito un impero criminale, ordinato omicidi, tramato con apparati deviati dello stato (deviati per modo di dire) e chissà cos’altro, uomo che ha trascorso ininterrottamente gli ultimi 34 anni e 2 mesi nel regime di isolamento dell’ergastolo ostativo che la corte europea dei diritti dell’uomo ha definito inumano con una storica sentenza nell’ottobre 2019.
La realtà è che Cutolo ha pagato caro il suo silenzio, lo stato non lo può tollerare e quindi l’ha trasformato nella bestia ideale da mostrare nella gabbia, la cui bocca sporca di sangue è servita a giustificare delle sbarre sempre più resistenti. E pure da morto sta assolvendo a questo triste compito, a giustificare la necessità di questo sistema.
Un violento esperimento sociale portato avanti da uomini privi di dignità, mediocri impiegati col gusto per la tortura, che dal tribunale di sorveglianza di Bologna di fronte alla richiesta di scarcerazione della famiglia, motivata dalle precarie condizione di salute, hanno sentenziato la sua pena di morte viva* con un semplice: “sarebbe un accadimento eclatante” con “effetti dirompenti” sugli equilibri criminali in Campania.
Dei perfetti ingranaggi di questo stato assassino.
Pernice Nera
* La pena di morte viva è la definizione data al regime di ergastolo ostativo da Carmelo Musumeci unico ergastolano ad oggi a cui è stato revocato.
Con questo terzo articolo prosegue l’analisi delle politiche emergenziali in corso e del parallelo tra la gestione degli animali da reddito e non e le regole a cui siamo soggetti.
Quando si parla di animali in gabbia si pensa immediatamente agli animali rinchiusi negli zoo o nei circhi, a quelli più o meno feroci catturati ed esposti al pubblico o a quelli stipati negli allevamenti intensivi; sono comunque tutti accomunati da una vita condotta all’interno di un sistema di costrizione fisica, di contenimento e immediato è il parallelo con l’analogo sistema umano, dove si vuole amministrata la giustizia per ordine dell’autorità competente, il carcere.
Lo scorso marzo, nelle prime fasi di questa pandemia, in numerose carceri sparse per tutto lo stivale, ci sono state delle rivolte spontanee causate dal panico da diffusione incontrollata e incontrollabile del virus. A Modena cinque reclusi sono morti durante la sommossa, quattro durante il trasferimento in altre carceri come Bologna e Terni e almeno altri quattro nelle settimane successive. Morti le cui cause non sono ancora certe, una strage di stato di proporzioni incredibili senza precedenti dal dopoguerra ad oggi.
Le rivolte sono immediatamente state indicate come etero dirette dalla mafia, da sovversivi o da fantomatiche forze occulte che tramano nell’ombra, chiaramente per gettare discredito sulle reali motivazioni del disagio che ha causato quel dissenso. La verità è che la gestione dell’emergenza se fuori è stata gestita col bastone della repressione, in carcere non è certo stata usata la carota, ma un bastone con ancora più nervo. Le condizione di sovraffollamento delle carceri italiane sono note da decenni e il timore riguardante la diffusione del covid in questi ambienti così precari è stata la scintilla che ha incendiato una polveriera colma, giunta all’esasperazione con la soppressione dei colloqui con i famigliari, uno dei pochi momenti di contatto con l’esterno e di socialità non controllata dei detenuti.
E se alle immagini delle rivolte sui giornali e tv è stato dato molto risalto, per questa strage solo in pochi ambienti se n’è sentito parlare, anzi solo in questi giorni a mesi di distanza, è stato depositato un esposto per far luce sui pestaggi e le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in quei giorni di marzo.
Parallelamente, lo scorso ottobre in trentino abbiamo assistito al corteo di protesta contro la detenzione, all’interno dell’area faunistica del Casteller nei pressi di Trento, degli orsi considerati troppo pericolosi per l’uomo e del danneggiamento fatto ad una delle recinzioni perimetrali. A questo analogo caso di costrizione forzata, che fortunatamente non ha causato vittime, è stato dato molto risalto.
E facendo un parallelo ci troviamo di fronte al paradosso che la cattura di un’orsa ha visto un corteo in trentino e un sabotaggio, azione ribadiamo assolutamente condivisibile, e la strage di Modena non ha visto una mobilitazione così per certi versi incisiva.
Sia ben chiaro, l’intento di questo confronto non vuole in alcun modo togliere supporto e sostegno alla lotta, azione e mobilitazione del Casteller, ma porre un interrogativo riguardo al rischio di avere sensibilità diverse di fronte ad un analogo sistema costrittivo.
Perché se da un lato nel precedente articolo abbiamo visto come gli animali siano assolutamente spendibili (nel loro caso sopprimibili) in nome del rischio sanitario, con questo silenzio o peggio disinteresse non vorremmo che anche quegli uomini lo siano, essendo già privati, oltre che della libertà del diritto alla salute e alla vita e sia ben chiaro non vissuta dietro le sbarre o comunque lo siano come esperimento di un sistema da allargare poi a tutta la popolazione in qualche modo non produttiva.
E se, secondo le autorità, l’istinto animale non si può modificare e quindi il contenimento diviene indispensabile, sarebbe forse meglio non utilizzare per scopi economici o turistici la natura ma questo è un altro discorso, dall’altro il falso mito della riabilitazione, rende la detenzione in carcere il fine unico. Carcerazione fatta in condizioni di disagio e di distacco dagli affetti e precaria da molti punti di vista, non ultimo quello sanitario.
E questa umanità e questi animali sono legati da un triste destino, definito da Mario Trudu, ergastolano scrittore che di fronte alla certezza di concludere i suoi giorni in gabbia chiese di essere giustiziato giudicando questa fine più degna e ottenendo una risposta negativa, pena di morte in vita. Lucida analisi che ben caratterizza l’atteggiamento spietato, sadico e cinico di chi pensa, pianifica e realizza questi sistemi costrittivi.
Sistemi che occorre distruggere con la massima urgenza, qualsiasi essi siano, virus o non virus.
Pernice Nera
Lo scorso 9 ottobre, la Corte dei Diritti Umani di Strasburgo ha bocciato il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il regime dell’ergastolo ostativo, il cosiddetto “fine pena mai”.
La motivazione che la Corte ha addotto è che l’ergastolo ostativo si pone in contrasto con l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo, in quanto “al soggetto detenuto non è possibile eliminare anche la speranza di un recupero sociale, ma a costui va riconosciuta la possibilità di pentirsi e di avere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni”.
Il ricorso presentato dall’Italia, sul tema di ergastolo ostativo di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, aveva posto l’accento sulla pericolosità di certe condotte criminali, come quelle legate alle mafie e con ciò legittimando una reazione severa nei confronti di coloro che, aderendo ad una organizzazione mafiosa o terroristica, avessero come obiettivo quello di destabilizzare lo Stato.
Questa decisione, ricordiamo non vincolante per l’Italia, crea sicuramente un precedente importante che, oltre a mettere lo stato dinnanzi alle proprie responsabilità, potrebbe aprire la strada a numerosi altri ricorsi da parte di altrettanti detenuti che oggi versano appunto in condizioni disumane.
Questa sentenza ha avuto molto risalto sui media nazionali e ha scatenato tante reazioni, spesso rabbiose, tra le più comuni 2 domande, come si possa sconfiggere la mafia visto che la lotta si basi su queste pene e come chi è stato vittima possa avere davvero giustizia e vedere i colpevoli pagare per i propri crimini.
Pensare che una legislazione così possa sradicare un fenomeno sociale come è la mafia, nelle sue diverse denominazioni, che fonda le sue radici sulle ingiustizie sociali, è assolutamente folle; sono 30 anni che queste leggi sono attive e quei fenomeni non sono certo calati, anzi, e questo perché ne colpiscono solo i risultati e non certo le cause.
Per quanto riguarda la giustizia richiesta dalle vittime deve essere fatta una considerazione di premessa: i condannati all’ergastolo, possono usufruire di permessi “premio” dopo avere trascorso almeno 26 anni in prigione e questi possono essere accordati o meno. L’ergastolo ostativo, introdotto durante gli anni della legislazione di emergenza e di lotta alla mafia e terrorismo, nega di fatto la possibilità di usufruire di semilibertà o permessi e quindi in destino dell’ergastolano è quello di morire in carcere.
Queste persone devono trascorrere un periodo minimo di 26 anni in custodia dello stato che quindi avrebbe tutto il tempo avviare quei programmi di reinserimento, di recupero sociale che di fatto potrebbero portare in modo quasi naturale ad un cambiamento, all’ammissione e al pentimento. Ma le scelte finora adottate sono state quelle di definire queste persone eternamente colpevoli e quindi non meritevoli di alcun percorso o non meritevoli nemmeno della speranza.
Fatta questa premessa ci risulta davvero difficile comprendere come con questa vendetta rappresentata dal regime ostativo possa dare giustizia a chi è stato vittima e di come privando di qualsiasi legame con l’esterno, spesso anche sensoriale e sentimentale si possa pensare che un a persona possa “redimersi” o possa scegliere di collaborare con lo stato, in quella situazione con la veste di aguzzino. Il carcere duro fortifica gli animi e ne estremizza i tratti ed è fucina per nuovi e vecchi integralismi.
Questo concetto è stato ben espresso da Agnese Moro, che al di là della vicenda personale che l’ha coinvolta, ha saputo rendere l’idea di quale sia la reale intenzione di queste leggi o di chi con la bava alla bocca si augura di vedere marcire persone in una gabbia.
“Ci sono purtroppo tante vittime e il dolore terribile di chi resta che deve essere accolto e curato. E’ una responsabilità di tutti noi farlo. Ma, per esperienza, so che non si attenua e non passa perché il colpevole soffre; ma caso mai perché capisce le proprie responsabilità e cambia. Mi amareggia sempre vedere come, invece, il dolore delle vittime sia troppo spesso sfruttato come un’arma, da utilizzare contro provvedimenti che, se approvati o applicati, potrebbero far perdere qualche voto. Salvo poi dimenticare quelle stesse vittime quando chiedono piena applicazione delle leggi che le riguardano, l’apertura di archivi ancora inaccessibili e un po’ di ricordo e di affetto reale per quelli che furono e saranno sempre i loro cari.”
Scrivendo questo articolo non può che venirci in mente Mario Trudu, la cui storia è stata raccontata in questo articolo http://www.vallesabbianews.it/notizie-it/Morir%C3%B2-il-99/99/9999-50563.html e nell’articolo che trattava della presentazione della mostra che si è svolta a Salò dal 12 al 19 ottobre dei suoi libri e disegni.
Mario purtroppo non potrà vedere gli effetti di questa sentenza perché a seguito di alcune complicazioni successive all’operazione per un tumore, mal diagnosticato e non gestito per tempo, ha dovuto aspettare molti mesi per una tac, ci ha lasciati pochi giorni fa, dopo quasi 41 anni di carcere ininterrotto e senza potere vedere uno spiraglio di giustizia in tutta la sua vicenda.
Il nostro pensiero va a lui e a chi oggi, cerca giustizia, perché non è con le leggi o con la vendetta che si può sperare di vivere in un mondo giusto.
Valsabbin* Refrattar*